mercoledì 13 marzo 2024

Omaggio a Franco Basaglia - vero rivoluzionario - a 100 anni dalla nascita

L'11 marzo 1924 nacque a Venezia nacque Franco Basaglia, persona straordinaria, vero rivoluzionario. Perchè lo ricordiamo ancora oggi? Perchè ha chiuso i manicomi, centri di tortura, di schiavitù, di degrado senza fine, dove i malati erano trattati da bestie. Sono in molti a ricordarsi le copertine dell'Espresso, i cui fotografi riuscirono a documentare una realtà orrenda, dove i "matti" erano legati ai letti o ai termosifoni, nella sporcizia più avvilente. Vi ricordate "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana quando Giorgia Esposti, alias Jasmine Trinca, si dimena nel letto nell'impossibilità di slegarsi?

La Treccani: "Nel 1961, assumendo la direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, iniziò quello che doveva costituire il principale movimento per l'abolizione dell'istituto manicomiale in Italia. Proseguì a Parma l'azione di liberalizzazione, che trovò il suo punto culminante a Trieste, del cui ospedale psichiatrico egli divenne direttore nel 1971. Nel 1977, in seguito ai suoi costanti sforzi, l'ospedale poté considerare conchiusa la propria attività. Determinante il suo apporto nella riforma legislativa del 1978 (Legge 180), che ha deciso in linea di principio la soppressione degli ospedali psichiatrici". Perchè Basaglia può essere considerato un rivoluzionario? Perchè negli anni Cinquanta e Sessanta la cura andava sperimentando le prime applicazioni dei primi neurolettici e antidepressivi, ma restava ancora in massima parte legata alle terapie di shock (con insulina ed elettricità).
Conseguita nel 1957 a Padova la libera docenza in psichiatria, nel 1959 si trasferì alla direzione dell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Questa destinazione, rispetto alla prospettiva di una carriera universitaria, poteva assumere il sapore di un abbandono, condizionato dai limiti che aveva incontrato. Segnò invece una tappa importantissima nell'itinerario di evoluzione del suo pensiero.

"I matti siamo noi! Da vicino nessuno è normale". E ancora: "La società, per dirsi civile, disse Basaglia nelle sue Conferenze brasiliane, dovrebbe accettare tanto la ragione, tanta la follia". 

La società può essere civile solo quando si fa ospitale verso la follia. Dobbiamo far posto a quella parte di sragione che è in ciascuno di noi (Pier Aldo Rovatti, cit.)

 Basaglia, divenuto direttore del nosocomio senza aver precedentemente maturato un'esperienza diretta di lavoro negli ospedali psichiatrici, non tardò ad esprimere la sua reazione di rifiuto di quella realtà. Identificò certi ordinamenti, regole e consuetudini manicomiali come strumenti della violenza istituzionale, coercitiva e autoritaria, nella quale riconosceva un meccanismo segregante e un significato classista. Individuò in quel sistema e nei suoi metodi di cura la causa prima dell'istituzionalizzazione del malato e l'ostacolo ad un intervento che fosse invece adeguato ai bisogni che la malattia mentale esprime" (Treccani.it).

L'ospedale psichiatrico di Gorizia era un'istituzione in cui sopravvivevano meccanismi di contenzione e abitudini desolanti che evidenziavano le contraddizioni di certa psichiatria basilare. L'ospedale, dopo le vicende della guerra, si era trovato collocato sul confine con la Jugoslavia ed era una delle strutture sulle quali si concentravano i disagi di quel territorio, anche in ordine a conflitti e problemi socio-ambientali. La provincia di Gorizia contava circa centotrentamila abitanti e l'ospedale aveva una popolazione di circa cinquecentocinquanta ricoverati, con un tasso di ospedalizzazione molto alto. Dei ricoverati, circa centocinquanta erano di nazionalità iugoslava e restavano in Italia in applicazione del trattato di pace quale spesa di riparazione bellica a carico del ministero degli Esteri. Erano quindi persone inamovibili. Dei quattrocento che restavano, trecento erano malati cronici lungodegenti. 

In occasione della morte della brigatista - mai pentita - Barbara Balzerani, che il 16 marzo 1978 fece parte del commando di coloro che rapirono Aldo Moro e uccisero tutti gli uomini della scorta, la professoressa di filosofia teoretica della Sapienza di Roma Donatella Di Cesare, ha scritto un tweet orrendo - poi subito cancellato per vergogna - dove si leggeva: "La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malincuore un addio alla compagna Luna". La compagna Luna è il nome di battaglia della Balzerani. Ma siamo fuori di testa? I veri rivoluzionari sono persone come Franco Basaglia, non i terroristi rossi che hanno ucciso le migliori menti e servitori dello Stato.
   
Come scrisse Federico Caffè nella "Solitudine del riformista" sono i riformisti - Ezio Tarantelli, Marco Biagi, due nomi tra i tanti - i veri rivoluzionari perchè passo dopo passo, cambiano la realtà, mai demordendo nello sforzo persuasivo: 
"Il riformista è ben consapevole d’essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo. La derisione è giustificata, in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge. E’ agevole contrapporgli che, sin quando non cambi «il sistema», le sue innovazioni miglioratrici non fanno che tappare buchi e puntellare un edificio che non cessa per questo di essere vetusto e pieno di crepe (o «contraddizioni»). Egli è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del «sistema».
   
Il riformista è anche consapevole che alla derisione di chi lo considera un impenitente tappabuchi (o, per cambiare immagine, uno che pesta l’acqua nel mortaio), si aggiunge lo scherno di chi pensa che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai, in quanto a tutto provvede l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci: anche di preteso intento riformistico. Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose".

L'11 marzo 2024 su Repubblica Francesco Merlo ha scritto un pezzo - Barbara Balzerani e l'eterno ritorno del "Mal di Moro" - che vale la pena essere citato: "E' ancora abbondante la letteratura di tenera simpatia che racconta i terroristi come fragili coscienze travolte dalla storia, criminali sì, ma solo perchè vittime di una guerra civile che ho l'età per testimoniare che non c'è stata. La famosa ribellione della stragrande maggioranza dei ragazzi del '68 non fu materia preparatoria per il terrorismo e per questa porcheria omicida...E gli assassinati, i giustiziati non erano i borghesi corrotti del capitalismo imperialista, ma i rappresentanti di un'Italia aperta e civile, che oggi avrebbe potuto essere diversa e somogliare di più ad Aldo Moro e all'avvocato Croce, all'operaio Guido Rossa, ai giornalisti Carlo Casalegno e Walter Tobagi, ai professori Tarantelli e Bachelet". 

Gian Antonio Stella - in un Paese senza memoria - ha buon gioco nel dire che l'attuale ministro della Salute Orazio Schillace in tutte le 1824 notizie di agenzia, mai ha avuto modo di citare o ricordare Franco Basaglia. Il perchè è spiegato dal fatto che l'Italia è terzultima in Europa per quota di spesa sanitaria dedicata alla salute mentale: 3%. Staccata dalla media europea (5,4%), e staccatissima dalla Svezia (10%), Germania (13%) e Francia (14%). Ma non si contano le lagne sugli "squilibrati in libertà". Fare memoria non significa contemplare la fiamma, bensì alimentare la fiamma. 

Ti sia lieve la terra, caro Franco Basaglia.

giovedì 29 febbraio 2024

Omaggio a Irene Camber, campionessa olimpica e mondiale di fioretto

 

Qualche giorno fa, ci ha lasciato Irene Camber, formidabile atleta, medaglia d'oro di fioretto alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, campionessa mondiale, persona dalle grandi qualità umane.

Nata a Trieste nel 1926 - come mio papà! - Irene non si è mai accontentata nella vita. Amava immensamente vivere.  Irene primeggia nello sport ma non esita a studiare. Il padre Giulio dal fronte le scrive incoraggiandola all'impegno e alla costanza. Oggi si direbbe "consistency". Diplomata in pianoforte al Conservatorio, si laureò - prima donna a farlo - in chimica industriale all'Università di Padova, in una facoltà quasi completamente maschile. 

Nelle foto da giovane si vedono dei bellissimi occhi azzurri. La nipote Matilde Corno in una didascalia a un servizio fotografico ha scritto: "Irene ha gli occhi di ghiaccio. Se li guardi da vicino, vedi il mare di Trieste".

Gianni Brera in prima pagina sulla Gazzetta dello Sport dove era già giovane direttore dal 1949, in un pezzo dal titolo "Daghe Muleta!" ("Forza ragazza", in dialetto triestino), così si espresse al termine di una giornata appassionante - 27 luglio 1952, giorno in cui Emil Zapotek vinse i 5 e i 10mila metri - nei sobborghi della capitale finlandese, a Espoo, dove Camber vinse il primo oro olimpico femminile nella scherma italiana, già allora fortissima nella scherma maschile con i fratelli (Edoardo e Dario) Mangiarotti“Irene Camber ha il volto onesto e buono di tutte le vostre compagne di liceo che hanno scelto Chimica”. 

Gianni Brera
Brera prosegue: "Quando la campionessa ungherese (Ilona Elek, ndr) scese in pedana con l’azzurra, ella vantava quattro vittorie e una sconfitta, contro le tre vittorie e due sconfitte dell’avversaria. Le sarebbe bastato aggiudicarsi l’assalto per rinnovare il titolo olimpico. Quando Ilona, come una belva urlante, si lanciò su di lei, quella che considerava una facile preda dovette sembrarle a sua volta in agguato: due implacabili stoccate ne umiliarono la superbia”.
La finale effettivamente fu densa di pathos e vide vittoriosa Irene, vero e proprio underdog. Il giornalista Giuseppe Pastore la descrive così: "Irene ha un fisico non comune per gli standard dell’epoca, non solo femminili. È alta un metro e settanta, il che fa di lei una delle atlete di maggior statura in gara; ma allo stesso tempo è elegante, svelta, leggera, anche se paga molto in esperienza e cattiveria agonistica rispetto alla fortissima Elek", la favorita.

Le gare di scherma negli anni Cinquanta non seguivano un tabellone tennistico come oggi, ma si snodavano in infiniti gironi eliminatori finché gli atleti rimangono in 8, e a quel punto si sfidavano in un ulteriore girone all’italiana. Si vinceva a quattro stoccate. Camber ricorda: “Io seguivo gli assalti, prendevo appunti sulla scherma delle mie avversarie. In mattinata ho superato senza difficoltà i primi turni, mentre le mie compagne venivano eliminate. A mezzogiorno ho chiesto alla mensa una bistecca: non me l’hanno data, mi hanno risposto che erano contate e che spettavano non ricordo a chi. Allora ho mangiato un uovo e una mela”. 

“Ero calmissima”, ricorderà Irene, “mentre lei era più nervosa, conosceva la mia forza. Non solo l’avevo appena battuta nel girone, ma l’avevo anche cappottata a Budapest, a casa sua, qualche mese prima”. “Cappottare” voleva dire vincere 4-0. Elek si porta subito sul 2-0, poi Camber pareggia 2-2, subisce il 3-2, poi 3-3 ed è decisiva l’ultima stoccata. “Ricordo il silenzio intorno, le luci che mi davano fastidio. Accennai un attacco e la Elek parò. Ripetei lo stesso attacco e lei parò con lo stesso gesto. Io stavo traccheggiando ma mi resi conto che lei rispondeva in modo meccanico, senza grande attenzione. E allora entrai decisa: feci un coupé e le entrai nella pancia”.

Nel leggere le cronache di allora, mi ha colpito una considerazione di Irene, tratta dall'insegnamento di suo padre Giulio, avvocato e uomo di lettere, combattente nella prima e nella seconda Guerra Mondiale (dove morì nel 1941 in Albania per una caduta da cavallo): “Sei tu che devi risolvere il tuo problema”. E' così che funziona nella vita di ciascuno di noi, nei momenti difficili. Nelle parole di Donato Menichella, storico governatore della Banca d'Italia dal 1948 al 1960, quando l'Italia cresceva come non mai: "Sta in noi". 

Inoltre, Irene ricordava sempre ai giovani: "Per vincere bisogna combattere, se non si combatte non si può vincere". Ma aggiungeva un'altra esortazione del padre: "Mi diceva che nella vita, come nella scherma, devi essere sempre leale, corretto, senza mai imbrogliare". In un'altra occasione disse: “L’insegnamento di mio padre, che io trasmetto, è che l’importante non è vincere ma vincere con onestà, senza che nessuno ti regali nulla. E ai giovanissimi schermidori dico di essere pazienti e determinati, perché il nostro sport è una lunga sfida prima con se stessi”.

Irene ha ricordato con emozione il suo ritorno in terra triestina, dopo l'oro di Helsinki: ”Arrivai a Trieste con la corriera da Venezia alle 16,45. Fui portata per Corso Italia su una macchina scoperta, ci seguivano le macchine e trecento lambrette. Fu la vittoria di una città”. Trieste non era ancora completamente italiana. Sarebbe tornata all’Italia due anni dopo, e per sempre.

Trieste, città bellissima, con una piazza meravigliosa - Piazza Unità d'Italia - che si affaccia sul mare. Città piena di storia e caratterizzata dalle vicende dell'irredentismo. Qualche anno fa, nel dicembre 2018, per il centenario della sede della Banca d'Italia, il vicedirettore generale Federico L. Signorini scrisse un intervento tutto da leggere: "Trieste fra Europa e nazione: 1918-2018".

Voglio soffermarmi su un passaggio. In tempi  di sovranismi, è quanto mai opportuno ricordare il pensiero di Luigi Einaudi, che definì il dogma della sovranità assoluta come "massimamente malefico": 

Luigi Einaudi

La degenerazione imperialistica del nazionalismo è colta appieno da Luigi Einaudi (futuro 
Governatore della Banca d’Italia, lasciatemelo ricordare), il quale nel 1918, quando le armi si erano appena posate, quando la Società delle Nazioni era ancora in gestazione (per non parlare dell’Unione europea, che era di là da venire), scrisse un lucido articolo dal titolo Il dogma della sovranità e l’idea della società delle nazioni. “Se fu necessario – disse Einaudi – sconfiggere il nemico […] sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica”. Varrebbe la pena riportare tutta la pagina di Einaudi, ma il succo è questo: se si accetta l’idea di una sovranità assoluta e perfetta delle nazioni, essa concerne naturalmente il diritto di far guerra, e quindi di avere le frontiere che permettano una agevole difesa, e quindi di conquistare i territori limitrofi che abbiano tali frontiere. Ma non solo: l’idea che una nazione per affermarsi debba essere autosufficiente implica la necessità di possedere tutte le materie prime, le infrastrutture, e quindi conquistare – sempre a fin di bene e di autodifesa – i territori che abbiano carbone, grano, porti marittimi, e così via. Ogni elemento in più che si conquista reclama un altro elemento da conquistare; non vi è fine a questa catena. Le nazioni dunque, per “essere pienamente se stesse”, cozzano contro altre nazioni.".

Certo che per Irene Camber passare dalla Mitteleuropa così ben descritta nelle pagine sublimi di Claudio Magris alla Brianza non deve essere stato facile. Un giorno che le chiesero quale fosse la cosa più impegnativa, rispose sorridendo: "Crescere tre figli maschi".


Il palmares di Irene Camber è quanto mai lungo: oltre all'oro olimpico, 
il bronzo a squadre a Roma 1960, mentre nei campionati mondiali si annovera un oro individuale (Bruxelles 1953) ed uno a squadre (Parigi 1957), un argento (a squadre Lussemburgo 1954) e 5 bronzi (fioretto a squadre a Copenaghen 1952, Bruxelles 1953, Roma 1955 e Buenos Aires 1962; fioretto individuale a Parigi 1957). Non partecipò alle Olimpiadi di Melbourne in Australia nel 1956 poiché impegnata nel matrimonio con Gian Giacomo Corno, diventato negli anni rispettatissimo commercialista e aziendalista a Lissone.
Dopo il ritiro da atleta nel 1964, fu Commissario tecnico della Nazionale fino alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Nel 2015 ha ricevuto il Collare d’oro al merito sportivo, uno dei più prestigiosi riconoscimenti del Coni.
Irene Camber con Mattarella
Per comprendere a pieno la leggendaria carriera di Irene Camber, facciamo notare che sono solo tredici le donne italiane che possono fregiarsi di essere state campionesse olimpiche e campionesse mondiali della stessa specialità: Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Elisa Di Francisca, Giovanna Trillini, Josefa Idem, Jessica Rossi, Diana Bacosi, Paola Pezzo, Alessandra Sensini, Deborah Compagnoni, Stefania Belmondo, Gerda Weissensteiner.


Al funerale di Irene Camber, con la chiesa gremita, il figlio
Fabio Corno, già mio professore di economia aziendale in Bocconi, dopo aver ricordato quante persone provano gratitudine verso Irene, donna che si è spesa per gli altri, ha letto una poesia di Giulio Camber Barni (1891-1941), dal titolo "Il passato" (nel 1950 Mondadori pubblicò “La Buffa”, una sua raccolta di poesie con una lunga prefazione del più importante dei poeti triestini, Umberto Saba):.

La sera, quando suonan le campane,

la voce del Passato mi torna

con una profonda tristezza.

Ed io mi volgo allora

per dirgli qualche cosa,

e per guardarlo a lungo

nei suoi occhi d’arcobaleno.

Giulio Camber Barni

E lui, con la sua voce,

non parla, eppur lo sento

come mi dice con gli occhi:

“ti perderò nella notte;”

Io sento come mi chiede:

“perché tu m’abbandoni”?

Io lo vorrei trattenere

perchè gli voglio bene:

siamo vissuti insieme;

e intanto avanza lo stuolo dell’ombre:

bisogna partire.

Ed io non vorrei lasciare

la sua mano melanconiosa,

ma la notte l’afferra

ed io brancolando lo cerco,

e non lo trovo più.

E allora mi par di sentire,

nel vento una voce che piange,

come di mio padre,

e non capisco se sia

la sua oppure la mia.

 

La mela non cade mai lontana dall'albero, le generazioni si susseguono e ognuno porta avanti la propria storia. Il passato non deve essere visto con retrotopia e spirito nostalgico, bensì come uno stimolo, ascoltando le voci - sagge - di chi ci ha preceduto.

Camber con le fiorettiste d'oro a Milano (2023)

La vita di Irene Camber deve fungere da esempio non solo per figli e nipoti (8 nipoti e 3 bisnipoti, tanta roba), ma per tutti noi, consapevoli che nella vita bisogna impegnarsi in modo serio, competere - ma con grande correttezza -, aiutare gli altri ogni qualvolta ci è possibile.

Un forte abbraccio a Fabio e ai suoi fratelli.

Cara Irene, le sia lieve la terra.