venerdì 4 marzo 2011

Meno ai padri, più ai figli. Il fallimento di una generazione

Durante l’ultimo viaggio in treno Bergamo-Milano ho ripreso in mano un saggio di alcuni anni fa di Nicola Rossi, dal titolo evocativo Meno ai padri, più ai figli (Il Mulino, 1997). La rilettura è stata stimolata dalla lettera dello stesso Rossi – Il fallimento di una generazione - al Corriere della Sera del 4 febbraio scorso, di cui riportiamo alcuni passaggi: “Ho solo voluto smentire una delle tante favole che negli ultimi tempi hanno trovato credito soprattutto a sinistra: l’idea ingenua e fuorviante che l’evoluzione dell’umanità sia un processo lineare le cui interruzioni sono da considerarsi anomalie. Spiace, ma così non è. Così non è mai stato. E’ capitato a molti di sperimentare condizioni di vita e livelli di benessere inferiori rispetto a quelli sperimentari dalle generazioni precedenti. I giovani di oggi non sono i primi e non saranno gli ultimi. E la strada che hanno davanti è la stessa dei tanti che hanno in passato affrontato simili difficoltà e hanno saputo risalire la china: rimboccarsi le maniche, studiare e lavorare di più e meglio per riconquistare i perduti livelli di benessere, accettare la realtà e affrontarla a viso aperto, piegandola se necessario e quando possibile”.

Rossi prende di petto e accusa la generazione dei padri di ieri: “Una generazione composta in buona misura da cavallette. Politici – a destra come a sinistra – che hanno fatto quanto potevano per impedire (e ci sono riusciti!) che si facesse a tempo debito quanto poteva dare ai più giovani prospettive meno incerte”.

Mario Draghi
Nel leggere Rossi mi sono tornate in mente le considerazioni del Governatore Mario Draghi, che nel suo intervento di novembre ad Ancona – scrive: “Abbiamo ripetutamente richiamato l’attenzione sul più generale difetto, nel nostro paese, di social capability, il termine usato da Fuà (l'economista Giorgio Fuà, ndr) per indicare la mancanza “di un quadro politico e giuridico, di un sistema di valori, di una mobilità sociale, di un genere d’istruzione, di una disponibilità di infrastrutture tali da favorire lo sviluppo economico moderno".

Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva. È possibile che lo shock della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività; è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi; è anche possibile un percorso più negativo.


È già accaduto, in un lontano passato. All’inizio del Seicento, gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del pianeta, nonostante le guerre che avevano segnato il secolo precedente. Secondo le stime di Angus Maddison, pur controverse, il prodotto pro capite annuo, valutato ai prezzi internazionali del 1990, era pari a 1.100 dollari, un valore doppio della media mondiale, superato solo nei Paesi Bassi. “Tre generazioni più tardi – ha scritto Carlo M. Cipolla – l’Italia era un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di manufatti ed esportare di prodotti agricoli, dominato da una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari”23. La stagnazione proseguì nei decenni successivi e nel 1820 il PIL pro capite era fermo al livello di due secoli prima. Quali le ragioni di questo “lungo gelo” dell’economia italiana? Vi erano fattori esterni, come il collasso dei principali mercati di sbocco dei prodotti italiani del tempo, ma per Cipolla le ragioni erano soprattutto interne: salari non coerenti con la produttività del lavoro, un elevato carico fiscale, un difetto di capacità imprenditoriale che impedì di cogliere i mutamenti nella domanda; “il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera”.

Ah Carlo Maria Cipolla, sei insuperabile! Ne parlerò con i miei studenti a lezione.
Cari studenti, state attenti quando gli italiani si compiacciono della propria ricchezza (privata). La rendita, prima o poi, porta all’impoverimento. Un’economia che non si sviluppa non ha le risorse per pagare i propri debiti.

P.S.: per approfondimenti si consiglia Carlo M. Cipolla, Storia facile dell’economia italiana (Mondadori, 1995)

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