giovedì 30 giugno 2011

Le banche non stanno troppo bene, ma per i banchieri è tornata la bonanza: bonus a gogò

Il Financial Times in prima pagina due settimane fa ha titolato "Bank chiefs’ pay rises by 36% despite patchy performances". Quindi nonostante risultati deludenti, i manager, i Chief Executive Officer passano all’incasso. Sembra di risentire la battuta (prima della crisi, luglio 2007) del Chuck Prince, CEO di Citigroup: “Finché l'orchestra suona, noi continuiamo a ballare”.

Due dei nomi più noti del banking, Jamie Dimon – CEO di JP Morgan Chase – e Lloyd Blankfein – CEO di Goldman Sachs – sono pagati 15 volte i livelli del 2009. “Mr Dimon received nearly $21m in 2010 (miglior anno della storia della banca, ndr). Mr Blankfein earned$14,1m, including a $5.4m cash bonus”.

Persino nel Regno Unito - dove il Governo è dovuto intervenire pesantemente al salvataggio di Barclays e Royal Bank of Scotland (RBS) – i CEO hanno finito il tempo delle scuse, della contrizione e sono tornati alla bonanza. “The CEOs of Barcays, HSBC, Lloyds Banking Group and RBS were awarded cash and stock bonuses valued at more than $26m last year. That contrasts with 2009, when all four declined bonuses in a nod to public and political furore”.

Come sottolinea l’FT, purtroppo “Regulators have declined to impose caps on bank pay, instead introducing changes they believe will limit incentives to take excessive risks”.

Siamo ancora in presenza di una crescita anemica, di bilanci delle banche sono zoppicanti, il Comitato di Basilea presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (BCBS) pressa per più capitale e meno debito e nel frattempo i CEO si portano a casa milioni di dollari.

Per capirne qualcosa torniamo ai classici. Marco Vitale – Passaggio al futuro (EGEA, 2010) – scrive: “Nessuno ha posto con serietà il tema della necessità di bilanciare i poteri del CEO in modo sistematico e istituzionale. Bisogna ripartire da una corretta concezione del ruolo dell’impresa nella società e del management che rischia di essere un orrendo neofeudatario.

Negli ultimi 20 anni si è creato uno squilibrio politico e sociale che ha permesso allo stesso di appropriarsi di corrispettivi che non hanno più alcuna relazione di nessun tipo con le prestazioni fornite, con i risultati raggiunti, con il loro tipo di attività, con l’andamento reale delle aziende. Questi valori non rappresentano più un corrispettivo per dei servizi professionali, ma un’appropriazione basato su un’incontrollata posizione di potere”.

Marco Vitale – definito magnificamente da Fosco Maraini "lo sherpa delle idee" - cita William Mc Donough, presidente della Federal Reserve di New York (non certo un populista!) che disse: “Non vi è nulla che giustifichi stipendi 400 volte più alti del salario medio”.

Giulio Sapelli, storico insigne, scrive in La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri, 2008, attualissimo): “Le stock options non hanno nulla a che vedere con il profittto capitalistico: sono ricavi da rendita di posizione, ossia dal dominio assoluto sull’azienda ottenuto grazie al monopolio delle informazioni e a spericolate manovre finanziarie...Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala, le forze vive dello sviluppo declinano a vantaggio dell’interesse parassitario, che spinge all’aligopolio e alla collusione tra pubblico e privato, con conseguenze che possono introdurre tossine pericolosissime per l’equilibrio sociale”.

A me non piacciono per niente i manager faso tuto mi – bisognerebbe chiamarli magnager - , i CEO che si guardano allo specchio e si credono Napoleone, i CEO delle banche che rischiano il capitale a beneficio asimmetrico dei loro bonus.

L’anno scorso, nello scrivere di Richard Fuld – Fuld, pallone gonfiato - disastroso CEO di Lehman Brothers, riprendevo con forza sempre Vitale: “Bisogna avere il coraggio di dire che molti dei grandi CEO che ci hanno portato alla crisi non sono manager, ma pirati, e che molti di loro sono semplici palloni gonfiati, abili nel furto con destrezza e forti solo del loro smisurato cinismo, e dell’uso spregiudicato della violenza. Come i mafiosi”.

martedì 28 giugno 2011

Il tributo di Mario Draghi a Paolo Baffi, Governatore integerrimo

Mario Draghi
Abbiamo letto nel week-end elogi sperticati della stampa internazionale per Mario Draghi, definito "Prussiano", "SuperMario" e "Unitalian". Ottimo. Buon per noi - onore all'Italia - e per lui.

Prima di partire per Francoforte sul Meno, Mario Draghi ha sentito il dovere di rendere ancora una volta onore al Governatore della Vigilanza, Paolo Baffi, a lui presentato dal suo Maestro, Federico Caffé, a cui abbiamo dedicato un post, Omaggio a Federico Caffè , che vi invitiamo a leggere.

Nel suo Intervento del 13 giugno all'Accademia dei Lincei Draghi si focalizza su quattro punti:

Paolo Baffi
1. Il ruolo di Paolo Baffi nella crescita del Centro Studi di Banca d’Italia: “Quando il venticinquenne Paolo Baffi fu assunto in Banca, nel 1936, i ricercatori dell’Ufficio Studi erano 6, e la figura stessa del funzionario-economista, dello specialista in seno a una amministrazione, era una novità. Quei pochi dovevano soddisfare una fame formidabile di conoscenze economiche da parte dei policy makers: temi quali la regolazione finanziaria, il controllo del ciclo, l’ordine economico internazionale, l’assetto strutturale dell’economia richiedevano l’apporto professionale dell’economista, la capacità di guardare ai fenomeni economici come a un insieme strutturato e coerente”.

2. Il Governatorato Baffi in un periodo turbolento della storia italiana. Così Draghi: “Paolo Baffi fu governatore della Banca centrale in un momento difficile della storia italiana. L’improvviso aumento del prezzo del petrolio aveva provocato un impoverimento di tutti i Paesi industriali, che subivano insieme l’inflazione dei prezzi e la deflazione della domanda. In Italia si aggiungevano due fattori aggravanti il disequilibrio: un deficit pubblico crescente e un sistema di indicizzazione dei salari troppo sensibile.


Nelle sue prime Considerazioni finali, lette all’indomani della crisi valutaria scoppiata all’inizio del 1976, Baffi propose due misure volte a fronteggiare l’emergenza: un “patto sociale” con le confederazioni sindacali per controllare la crescita del costo del lavoro, e un razionamento del credito al settore produttivo qualora l’evoluzione della finanza pubblica portasse a situazioni di “eccesso monetario rispetto alle linee di tendenza prevalenti nel resto del mondo interessato al nostro commercio”.

Lo stesso Baffi definì il periodo 1975-1979 “il mio quinquennio di fuoco”.

3. Le trattative guidate da Baffi per l’ingresso della lira nel Sistema Monetario Europeo (SME): “Nelle trattative per l’adesione al Sistema monetario europeo, svoltesi nel 1978, egli fu molto cauto, preoccupandosi di garantire al sistema coesione nel lungo periodo: “E’ presumibile che le disparità di andamento delle variabili economiche e monetarie nei paesi della Comunità non permetteranno di evitare il ricorso ad aggiustamenti reciproci nei rapporti di cambio. A questo fine, margini di fluttuazione bilaterale relativamente ampi svolgono l’utile funzione di consentire la modifica dei tassi centrali senza quelle discontinuità nelle quotazioni di mercato che renderebbero il sistema prono alla speculazione”.

La cautela di Baffi si estrinsecò nella trattativa volta a ottenere la banda larga del 6% per l’Italia. Storiche furono le negoziazioni tra Baffi e il Governatore della Bundesbank Emminger. In un articolo del 12 settembre 1988 – “Così conquistammo Emminger” sul Sole 24 Ore Baffi scrisse: “Mi angosciava l’idea che risultati tanto apprezzabili potessero venire compromessi della partecipazione a un accordo di cambio rigoroso, che legando strettamente la lira all’area del marco la costringesse in una situazione sistematica di apprezzamento del cambio reale, penalizzante per l’esportazione. A questa preoccupazione si riconduce l’insistenza usata per ottenere una banda larga, che rendesse meno acuto il dilemma tra l’accettazione di periodi ricorrenti di sovravalutazione del cambio reale e la richiesta di aggiustamenti frequenti del tasso centrale, ognuno dei quali avrebbe potuto essere causa di attriti e suscitatore di ondate speculative”.

4. L’attacco al Governatore e all’autonomia di Banca d’Italia nel 1979. Così il futuro Governatore della BCE: “Il fatto che la legge sancisca, come oggi avviene in ambito europeo, l’autonomia della Banca centrale non è tutto: per essere piena e operante, l’autonomia abbisogna di un retroterra culturale e morale che si chiama indipendenza di giudizio, rigore analitico, impegno civile.


L’incriminazione subita da Baffi nel 1979 nel quadro di un attacco intimidatorio all’autonomia della Banca d’Italia, seguita a due anni di distanza dal pieno proscioglimento, lo indusse alle dimissioni ma non intaccò minimamente una reputazione costruita in oltre quarant’anni di dedizione al bene pubblico.


Gli scritti raccolti negli Studi sulla moneta e nei Nuovi studi sulla moneta, non meno delle Considerazioni finali pronunciate in qualità di Governatore, testimoniano l’impegno di Baffi per difendere e coltivare un patrimonio ideale che la Banca d’Italia mette al servizio della collettività”.

Io consiglio di rileggere i miei post dedicati a Paolo Baffi, affinchè la memoria labile di questo Paese si rafforzi attorno a personaggi di altissima levatura.

mercoledì 22 giugno 2011

Wimbledon, patriottismo economico e concorrenza

Lunedì è iniziato il Torneo di Wimbledon . Più precisamente sono partiti i The 125th Championships del più affascinante e antico (1877) torneo di tennis del mondo che ha sede presso l’All England Lawn Tennis and Croquet Club , a un’ora dal centro di Londra.

Un momento magico. Per chi - come è - stato più volte sul Campo Centrale, sa di cosa sto parlando. Il manto erboso curato dai migliori giardinieri del mondo, gli inchini al Royal Box, le code all’alba, gli Honorary Stewart con il cappello ornato di verde e viola - i colori del Club - le fragole con panna, l’educazione del pubblico e dei giocatori in campo, con le dovute eccezioni per miti assoluti come John McEnroe, The Genius. Stiamo parlando dei Gesti Bianchi (Baldini e Castoldi, 1995), libro meraviglioso del nostro amato Gianni Clerici.

In onore di Wimbledon, ho ripreso in mano l’indimenticato Tommaso Padoa-Schioppa (TPS) – vedi post Omaggio a TPS – che nel febbraio 2005 scrisse un articolo memorabile dal titolo Il patriottismo economico oggi. L’effetto Wimbledon . Così TPS: “Tra le cose di cui gli inglesi vanno fieri vi è il loro torneo di tennis. Nessun grande giocatore l’ha mai snobbato; il lungo elenco di chi l’ha vinto coincide con quello dei grandi dell’intera era del tennis. Ma che cos'ha Wimbledon di veramente inglese? Solo il luogo...”

Certo i britannici esulterebbero se a Wimbledon vincesse di nuovo un inglese, dopo decenni; ed esulterebbero i produttori britannici di racchette (se ve ne fossero) se tutti i partecipanti al torneo usassero solo racchette made in England. Ma qualora il Club o il governo britannico manovrassero a tali fini premi d’ingaggio ai giocatori, scelta degli arbitri, sorteggio dei turni, tifo del pubblico, il torneo scomparirebbe dal calendario dei veri campioni, dai programmi televisivi e dai bilanci pubblicitari. Una perdita netta per la Gran Bretagna. Così è accaduto per altri tornei, anche italiani”.

Tommaso Padoa-Schioppa
Nel sintetizzare tuttii commenti successivi al suo pezzo, TPS rispose così: “Che metro usare per misurare il successo? Nel vecchio manuale il metro era l’autosufficienza, posta al servizio della sicurezza nazionale. Nel nuovo la misura è semplice, numerica e prettamente economica: il prodotto nazionale, cioè l’incremento di ricchezza. Vince il Paese più bravo a produrre ricchezza”.

Nel mondo dell’autosufficienza, il popolo- produttore estrae carbone dal Sulcis, vola Alitalia e strapaga banche ed energia. Lo «stra» è una tassa per la difesa nazionale. Ma il dividendo della pace libera il popolo da quella tassa: specializzarsi in ciò che si produce meglio e venderlo all’estero in cambio di ciò che l’estero produce meglio. Il minatore del Sulcis diverrà informatico di Tiscali, il bravissimo pilota di Alitalia volerà tra Linate e Fiumicino per British Airways. Il dividendo della pace va a tutto il popolo”.

Diventare più bravi significa anche, forse soprattutto, risolvere meglio i conflitti tra interessi contrapposti; conflitti che sempre abbondano all’interno di una comunità pur unita da uno stesso senso di appartenenza. L'interesse generale, o nazionale, è sì un concetto unitario, ma non c’è un solo modo d’intenderlo. E ognuno di solito l’invoca per trovare alleati al proprio interesse. La lista è lunghissima: piccoli commercianti, banchieri autoctoni, stanchi industriali di terza generazione, dirigenti di sindacati cui nessun giovane s’iscrive, detentori di licenze di taxi, ordini professionali, farmacisti, tabaccai. Ognuno reclama protezione del proprio interesse particolare in nome di quello generale.


John McEnroe
Giavazzi non esagera quando osserva che «televisioni, banche, autostrade, il gas dell’Eni (ma anche gli edicolanti e i notai) guadagnano solo perché sono blindati da una regolamentazione scritta per proteggerli ai danni dei consumatori ». Se è vero che la misura del successo è la crescita del prodotto nazionale, non è meno vero che di solito i provvedimenti capaci di rafforzare quella crescita giovano ad alcuni e nuocciono ad altri. Wimbledon rimane il torneo più affascinante perché produttori di racchette inglesi, vivaisti d’erba cattiva, federazione dei tennisti britannici e via dicendo non sono riusciti a prenderlo in ostaggio. Certo che l’Italia non è l’Inghilterra. Ma l’esempio di Wimbledon illustra soprattutto l’importanza di scegliere l’obiettivo giusto nel coacervo degli interessi eterogenei che ruotano intorno a uno stesso evento. E «giusto» (da un punto di vista economico, s’intende) è quello che fa crescere il prodotto nazionale”.

Qualcuno ha voglia di ascoltare TPS, almeno la prima settimana di Wimbledon?

Diamo il buon esempio e suggeriamo una lettura pro-concorrenza: la Relazione del Presidente dell’Antitrust, Autorità Garante della Concorrenza e del mercato.

lunedì 20 giugno 2011

Le banche italiane: un salasso per l'investitore

Al Festival dell’Economia di Trento alcuni partecipanti hanno applaudito un intervento del pubblico che sottolineava come le banche abbiano danneggiato gli investitori non solo non avendo curato a dovere i loro risparmi, ma con una gestione allegra degli impieghi, hanno prodotto forti cali nel prezzo delle azioni.

Ma quali applausi! Ogni investitore deve essere responsabile delle proprie scelte di portafoglio. Non può sempre dar la colpa agli altri.

E’ da almeno due anni che i banchieri centrali scrivono, rispondono con le stesse parole: “Più capitale, meno debito, meno rischi”. Se ne deduce – e se ne doveva dedurre anche in passato – che bisgonava stare molto lontani dal settore bancario.

Non è mai bello citarsi, ma questa volta ne vale la pena. Nel post Le banche italiane sono veramente messe meglio delle altre?  il 10 gennaio 2011 scrivevo: “Quando al TG1 ci raccontano che le banche italiane non hanno asset tossici, cambiamo canale. Quando la crisi colpisce duro, gli asset tossici sono gli impieghi!”

Guardiamo quindi insieme l’andamento di borsa delle principali banche italiane da inizio anno a venerdì 17 giugno:

- Unicredito – 4%
- Intesa Sanpaolo S.p.A. – 5%
- Unipol Banca – 17%
- Monte dei Paschi (MPS) – 17%
- Banco Popolare – 33%
- Banca Popolare di Milano – 34%
- UBI Banca – 36%

Nelle ultime Considerazioni Finali del Governatore di Banca d’Italia Mario Draghi leggiamo: “Nel nostro paese non vi è stata una crisi bancaria. Tuttavia la recessione, aggravando debolezze aziendali preesistenti, ha portato a un aumento del numero di procedure di gestione provvisoria, amministrazione straordinaria e liquidazione".

Pesanti perdite hanno subito le banche popolari. Anche in questo caso Draghi è illuminante: “Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario; le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive”.

Solo in Italia possiamo avere una banca (Banca Popolare di Milano) governata dai sindacati. Nel 2007 valeva 11€, venerdì scorso 1,7€. L’ultima ispezione di Banca d’Italia si è conclusa con dei pesanti rilievi e l’intervento d’ufficio della Consob.

Luigi Zingales
Zingales sul Sole 24 Ore di ieri – Una cattiva Popolare è un danno al sistema - così descrive la situazione: “Sono stati contestati fidi eccessivi ad alcuni imprenditori (43% degli impieghi al settore immobiliare, ndr), mancanza di controlli nell'erogazione di credito a imprese non immuni dall'attenzione della criminalità organizzata, fino ad arrivare a errori e incongruenze nel sistema di gestione dei clienti, diffuso disordine organizzativo e inadeguatezza nel sistema informatico. La Banca d'Italia ritiene di aver trovato perfino errori nel modo in cui i mutui venivano conteggiati".

Zingales va giù duro e ne chiede il comissariamento: "Di fronte a questi eventi, se essi venissero confermati anche da un giudice terzo, nel caso in cui Bpm ne contestasse l'esistenza, mi domando cosa aspetti il governatore Draghi. Una banca che non segue sempre rigidamente le regole nel concedere i prestiti, sbaglia a conteggiare i mutui e rifila i propri titoli (rischiosi) ai clienti inconsapevoli deve essere fermata. In un mercato competitivo sarebbe spazzata via dalla concorrenza. In un mercato protetto, come quello bancario, deve essere commissariata".

Alessandro Penati

Gli aumenti di capitale non sono certo una panacea.
Alessandro Penati scrive con saggezza - La banca cooperativa tradisce il territorio : "E' difficile chiedere soldi alla Borsa, se poi gli investitori non contano nulla e devono sopportare di veder subordinato il taglio dei costi e poltrone agli equilibri del controllo".

giovedì 16 giugno 2011

La non sottile differenza tra furbizia e intelligenza

Michele Serra nella sua spassosissima Amaca si chiede l’altro giorno: “Quanto costa agli italiani, in termini di mancato sviluppo economico la disonestà? Quanto ci costano i furbi, gli imbroglioni, gli evasori fiscali, i mafiosi, quelli che su piccola o grande scala scardinano il sistema delle regole per ingoiare un profitto illecito?”

Personalmente ho apprezzato la sortita dell’amministratore delegato di Sky Italia Tom Mockridge – Ora pulizia o saltano i diritti tv - contro il calcio scommesse – vedi post la cloaca del calcio- scommesse - che mina il patto di fiducia che lega il tifoso alla sua squadra, che rischia di rendere non autentiche le emozioni straordinarie che regala una partita di calcio.

Alla ricerca di spiegazioni sui banditi e sugli imbroglioni, mi sono arrampicato nella mia biblioteca e ho trovato la risposta. Carlo M. Cipolla – il nostro più grande storico dell’economia – ci ha lasciato uno spassosissimo saggio, Allegro ma non troppo (Il Mulino, 1988), che comprende Le leggi fondamentali della stupidità umana.

Io credo che uno dei grandi e irrisolti problemi italiani sia il fatto che la maggioranza dei cittadini non sa distinguere tra furbizia e intelligenza. Allora riprendiamo in mano Cipolla così facciamo un passo in avanti nel lungo e tortuoso cammino della consapevolezza.

La Prima Legge della stupidità umana asserisce senza ambiguità di sorta che: Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione".

La Seconda Legge Fondamentale dice che: "La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona".

La terza legge fondamentale presuppone che gli esseri umani rientrino in una di quattro categorie fondamentali: gli sprovveduti, gli intelligenti, i banditi e gli stupidi.


La Terza Legge Fondamentale chiarisce esplicitamente che: "Una persona stupida è una persona che causa danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza il contempo realizzare alcun vantaggio per sè o addirittura una perdita".

Carlo Maria Cipolla
Cipolla definisce bandito il comunemente denominato furbo. “Le azioni del bandito seguono un modello di razionalità, perversa, ma sempre razionalità. Il bandito vuole un “più” sul suo conto. Dato che non è abbastanza intelligente per escogitare metodi con cui ottenere un “più” per sé procurando allo stesso tempo un “più” anche agli altri, egli otterrà il suo “più” causando un “meno” al prossimo”.

Anni fa Luciano De Crescenzo fece la descrizione dello scugnizzo napoletano, eponimo della furbizia nazionale. Ma l’intelligenza, come ci spiega Cipolla, è diversa dalla furbizia. Purtroppo in Italia il furbo ha la meglio.

Peccato perchè le leggi e le regole non sono solo giuste, ma anche convenienti. Rispettarle e farle rispettare – enforcement - produce maggior benessere e maggiore certezza del diritto e quindi minori incertezze che ostacolano fare impresa.

Paolo Sylos Labini in Un Paese a Civiltà limitata (Laterza, 2001) scrisse: “In Inghilterra è tenuto in gran considerazione il carattere, da noi invece l’astuzia. Da quando ho l’età della ragione dico che, se fossimo un po’ più grulli, vivremmo tutti meglio. E’ ben difficile immaginare un paese veramente civile in cui gran parte delle persone di rilievo sono furbe e in cui chi si fida degli altri è considerato un ingenuo, ossia uno sciocco”.

Chiudo con una riflessione del mio amato Gianni Brera, che nel suo L’Arcimatto (1960-66, Baldini e Castoldi, 1993, p. 158) ci lascia scritto: “La forma di furberia più efficace in Italia è l’onestà. E poiché i furbi velleitari sono millanta, ne deriva che i veri furbi sono pochi”.

lunedì 13 giugno 2011

Il caso Madoff, il mastino Irving, Unicredito e il rischio reputazionale

Il 12 Marzo 2009 Bernard Madoff - il finanziere di New York, ex presidente del Nasdaq - si è dichiarato colpevole di tutti gli 11 capi d'accusa a lui ascritti ed è stato condannato a 150 anni di carcere.

Rispetto agli altri hedge fund Madoff non vantava profitti del 20-30% ma si attestava su un più ragionevole rendimento del 10% annuo che però rimaneva costante a prescindere dall'andamento del mercato. Il Financial Times ha scritto: “The returns on Madoff’s funds were not extraordinarily high, running at about 10 %; however they were steady, which appealed to conservative European investors. Clients were also reassured by apparently close ties that Madoff enjoyed to respected French and swiss banks, such as Union Bank Privée” (Madoff spins his story, 9 April 2011)

La truffa consisteva nel fatto che Madoff versava l'ammontare degli interessi pagandoli con il capitale dei nuovi clienti. Il sistema è saltato nel momento in cui i rimborsi richiesti superarono i nuovi investimenti. L'inganno è stato smascherato in quanto nell'ultimo periodo le richieste di disinvestimento avevano raggiunto una cifra - circa 7 miliardi di dollari - che Madoff non è stato in grado di onorare con le risorse finanziarie disponibili.

La truffa complessiva si aggira sui 20 miliardi di dollari, quindi simile a quella perpetrata da Calisto Tanzi patron di Parmalat – il quale però condannato in primo grado a 14 anni, è ancora in libertà o agli arresti domiciliari, Madoff ha subito una condanna a 150 di carcere.

Si è parlato a tal proposito di Ponzi Scheme. Lo schema di Ponzi è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi investitori, a loro volta vittime della truffa. Lo schema di Ponzi permette a chi comincia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare le quote. I guadagni derivano infatti esclusivamente dalle quote pagate dai nuovi investitori e non da attività produttive o finanziarie. Il sistema è naturalmente destinato a terminare con perdite per la maggior parte dei partecipanti, perché i soldi "investiti" non danno alcuna vera rendita né interesse, essendo semplicemente incamerati dai primi coinvolti nello schema che li useranno inizialmente per rispettare le promesse.

Le caratteristiche tipiche sono:

• Promessa di alti guadagni a breve termine
• Ottenimento dei guadagni da escamotage finanziari o da investimenti di "alta finanza" documentati in modo poco chiaro
• Offerta rivolta, all'epoca in cui fu architettata la truffa, ad un pubblico non competente in materia finanziaria
• Investimento legato ad un solo promotore

La tecnica prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano – nato a Parma come Calisto Tanzi, oh! gli scherzi della storia - che divenne noto per avere applicato nei primi anni del ‘900 una simile truffa su larga scala nei confronti della comunità di immigrati prima e poi in tutta la nazione. Ponzi non fu il primo ad usare questa tecnica, ma ebbe tanto successo da legarvi il suo nome coinvolgendo 40.000 persone e raccogliendo oltre 15 milioni di dollari.

La stampa internazionale ha dato grande risalto alle azioni intentate dal curatore fallimentare – trustee of the liquidation - di Madoff, Irving Picard, che si è rivalso con prontezza sugli intermediari – secondo l’accusa - compiacenti con la truffa. Picard ha intentato cause nei confronti di JP Morgan, HSBC.
In particolare, abbiamo letto settimana scorsa su Business Week che il mastino Picard ha convinto il giudice distrettuale di New York Jed Rakoff a prendere in considerazione in un tribunale ordinario l'accusa di racketeering. Il ricorso sulla base del Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act (RICO) mira a ottenere da Unicredit - coinvolta attraverso l'austriaca Bank Medici AG - l'indennizzo di 59 miliardi di dollari, cioè il triplo del danno subito.

Irving Picard e il suo team di avvocati dello studio Baker Hostetler - che lavorano au na tariffa di 747 dollari l'ora - hanno già recuperato 9 miliardi di dollari, una somma spaventosa. 7,2 miliardi $ derivano dall’intera restituzione delle plusvalenze realizzate da Jeffry Picower – storico amico e investitore nei fondi di Madoff - i cui eredi hanno preferito uscirne in modo esemplare.

Intervistato in carcere dagli inviati del FT, Madoff ha detto: “If Picard is successful, he may get $50bn. That means that there will be $30bn profits to go around, which would make me one f the greatest money managers in modern history”. Ha ancora voglia di scherzare!

La truffa di Madoff per ora lascia sul terreno solo 10 miliardi di dollari, inferiore quindi alla truffa del nostro Tanzi, che rimane saldamente in testa come il più grande truffatore di tutti i tempi.

Come ben ha scritto John Gapper sul Financial Times: “Wall Street’s involvement with Mr Madoff was a spectacular example of a bigger failure of ethics and risk management in the bull market. Too often, banks were over-eager to take fees for what they wrongly regarded as low-risk activities that would not absorb regulatory capital

In relazione al tema della custodia e delle banche depositarie, Gapper magistralmente scrive: Other people’s money (dal titolo del grandissimo Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema Americana) would become other’s people’s problem”.

In un altro intervento sull’FT, il chairman dell’autorità di vigilanza inglese - Lord Turner dell’FSA – ha invitato i regolatori introdurre incentivi ai banchieri affinchè prendano meno rischi con il capitale a disposizione (We need new rules to keep bankers honest”, 7 dicembre 2010)”.

Le banche non possono più sottovalutare il rischio reputazionale. “Reputation risk-taking can also costly, as Mr Picard is demonstrating”. Come sostiene il mitico Warren Buffett, “Ci vogliono vent'anni per farsi una reputazione, e cinque minuti per rovinarla”.

Un’ultima battuta. Colui che per anni ha denunciato le truffe di Madoff – con la SEC dormiente – si chiama Harry Markopolos, grandissimo whistleblower (o spione secondo la pessima accezione italica, ci abbiamo dedicato un post Spione o whistleblower?), dal cognome un grande erede del mitico viaggiatore e mercante veneziano.

giovedì 9 giugno 2011

La cloaca del calcio-scommesse, Beppe Signori, Padre Pio, l'ossessione del gioco e Dostoevskij

La cloaca del calcio (Tabacci dixit) ha prodotto l’ennesimo scandalo. Questa volta non sono gli arbitri a essere messi sotto accusa, ma calciatori o ex calciatori. Tra gli ex ci ha colpito la figura di Beppe Signori, attaccante del Foggia, Lazio, Bologna e della Nazionale.

Ce lo ricordiamo attaccante del Foggia, in forma spumeggiante, allenato dal mitico Zeman, boemo che si è sempre dimenticato di curare la difesa. L’importante era segnare un gol più degli altri, ma i gol servono per la campagna abbonamenti, la difesa per vincere gli scudetti o la Coppa dei Campioni!

Beppe Signori
Ci ricordiamo l’ossessione di Signori per Padre Pio, di cui era un devoto. Andò più volte a San Giovanni Rotondo in pellegrinaggio ai tempi di Zemanlandia. Un giorno, dopo un gol, si tolse la maglia e fece vedere la canotta con la foto di Padre Pio.

Intorcia su Repubblica ne fa un ritratto perfetto:  : “La maglia numero 10 del Bologna se la giocò a carte col compagno di squadra Locatelli. Con un altro, Fontolan, la posta divenne un lancio in parapendio. Col medico sociale dei rossoblù, il dottor Nanni, una scalata in bicicletta sull'Appennino. E con l'allenatore Guidolin ogni estate fissava un limite di gol da superare: il tecnico perse e fu costretto a pulirgli le scarpe, poi vinse e se lo portò dietro in bici fino a Cervia. In fondo, a ripensarci adesso, pure la carriera di Beppe Signori è stata una lunga scommessa. Da quando Zeman, al Foggia, lo battezzò "bomber" al primo incontro e gli cambiò la vita, a quando, in età matura, accettò il prestito al Bologna per rigenerarsi e restarci sei stagioni. Una sfida dopo l'altra. Di quelle, non s'è mai saziato.

Padre Pio da Pietrelcina
E allora non ci stupiamo della sua ossessione per le scommesse. Chi vive nell’ossessione, deve sempre trovarne una nuova. Per Signori, "scommettere" è sempre stato il verbo preferito insieme a "segnare". Da quando ha smesso col secondo, gli era rimasto solo l'altro. Una passione, prima. Un'ossessione, poi…. Beppe, la sua passione non l'ha mai nascosta: "Puntare è un modo per mettersi in discussione, è funzionale al mio approccio alla vita. Servono sempre nuove sfide, nuovi traguardi, per evitare di scadere in un'esistenza piatta", disse una volta.”.

Ieri su Repubblica abbiamo letto: "Il perno del sistema delle scommesse era l'asse Bologna-Singapore. Singori, attraverso un intermediario ancora da individuare, faceva da garante per le scommesse sul calcio italiano di tutte le categorie, scommesse che venivano effettuate a Singapore. Dove c'era qualcuno in grado di giocare cifre mostruose sulle partite truccate".

Siamo andati nel nostro studio a recuperare Il Giocatore di Dostoevskij, che meglio di ogni altro ha descritto la compulsione del giocatore. Il Giocatore finge l’attaccamento al lucro ma l’oscuro oggetto del desiderio è un altro: è l’estrema bramosia di rischio, la voglia di stupire gli spettatori rischiando follemente. La dipendenza senza sostanze è così raccontata nelle parole di Ivanovic: “Mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma”.

Non possiamo che trovarci d’accordo con Gianni Rivera che intervistato dal Corriere, dice: “In questa inchiesta ci sono quelli ai quali non basta ciò che hanno, e quelli che invece vogliono ad ogni costo migliorare la loro posizione. Tutti uniti dal rifiuto dell’idea che nella vita si possa star bene anche con meno soldi...ame sembra che questo scandalo dimostri, da parte dei giocatori ancora in attività, la voglia di arraffare il più possibile da una tavola che per loro sarà imbandita ancora per poco”.

Chiudiamo allineandoci all’opinione di Tito Boeri, ideatore del Festival dell’Economia e animatore della voce.info (e mille altre cose): “Il miglior antidoto contro gli illeciti sportivi è la sanzione sociale contro chi viola le regole e la valorizzazione di chi rompe il fronte dell’omertà”.

Possiamo solo augurare a Beppe Signori quello che Dostoevskij immagina per il suo protagonista: "Che cosa sono io adesso? Uno zéro. Che cosa posso essere domani? Domani posso risorgere dai morti e cominciare di nuovo a vivere! Posso ritrovare in me l'uomo, finché non si è ancora perduto".

P.S.: ci permettiamo di consigliare un libro meraviglioso: Sergio Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia nel Novecento, Einaudi, 2007

lunedì 6 giugno 2011

Benessere senza lavoro, affari senza regole e diritti senza doveri

Ho avuto la fortuna di partecipare al Festival dell'Economia di Trento, quattro giorni di incontri e dibattiti intensi e stimolanti. I migliori economisti italiani e internazionali dibattono piacevolmente in modo semplice, cercando il dialogo con il pubblico, colto e preparato.
Ieri mi ha entusiasmato l'intervento di Bruno Tabacci, parlamentare di lungo corso. Nella prima metà degli anni Ottanta ha diretto l'ufficio studi del Ministero dell'Industria con Giovanni Marcora e, in seguito, la segreteria tecnica del Ministero del Tesoro. E' stato presidente della Regione Lombardia nel periodo 1987-1989.
In Parlamento ha presentato numerosi disegni di legge concernenti la riforma delle autorità di garanzia, regolazione e vigilanza. E' stato uno dei pochi ad opporsi in maniera decisa al Governatore Antonio Fazio.

Bruno Tabacci
A due passi dal Duomo di Trento, Tabacci, a fianco di Giovanni Floris, è stato invitato a parlare del libro I professionisti del potere, di Elio Rossi (Chiarelettere, 2011), nom de plume, un autore che non vuole (o non può)scoprire la sua identità.
In un crescendo di idee e argomentazioni, Tabacci è riuscito a scaldare il pubblico con queste parole:
"Gli italiani - più o meno consapevolmente - hanno compiuto negli ultimi 20 anni una scelta di furbizia, una scorciatoia, basata su tre premesse fallaci:
- benessere senza lavoro;
- affari senza regole;
- diritti senza doveri.

Quando osserviamo la Germania crescere del 5% di PIL all'anno, dobbiamo ricordarci che nel 1989 hanno assorbito la DDR al cambio alla pari di un marco dell'Ovest con un marco dell'Est. E noi italiani? Ci crogioliamo nella cultura dei pacchi, dove alla sera è sufficiente scegliere il pacco giusto per illudersi che la vita è facile. In passato per vincere da Mike a Lascia e Raddoppia era necessario conoscere in modo mirabile un'intera materia di studio. E c'era il Maestro Manzi a insegnare l'italiano all'Italia analfabeta. E adesso? Siamo davanti al Grande Fratello, alla De Filippi, al mondo dei pacchi".

Alcide De Gasperi
Tabacci coglie l'essenza e ci ricorda che la ripresa economica ha come precondizione la ripresa etico-morale. In modo non strumentale cita il trentino Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio del dopoguerra, che il primo maggio del '45 a Roma disse: "Ora più che mai le vostre virtù devono essere virtù di tutta l'Italia...abbiamo perduto il patrimonio di tre generazioni, siamo una famiglia in rovina, su una terra seminata di rovine..siamo caduti in una povertà estrema. Curvi sotto il peso del loro destino, gli italiani levano la fronte in cui risplende nobiltà antica".

Tabacci mi ha riportato alla mente un passo del grandissimo Carlo Azeglio Ciampi - Non è il Paese che sognavo (Il Saggiatore, 2010): "E' chiaro che il problema di oggi non è più il superamento dell'analfabetismo che fu la priorità del primo governo dell'Italia unita. Noi oggi dobbiamo impegnarci perchè la scuola, intesa nel senso più esteso, sia, oltre che la palestra per formare i nuovi cittadini dell'Italia e dell'Europa, anche il momento di creazione dei valori e dei principi di cittadinanza".

Io all'Università di Bergamo ce la metto tutta. Settimana scorsa è venuto a lezione con me Umberto Ambrosoli, che ha reso silente - perchè attenta - l'aula gremita per due ore filate, ricordando l'attualità della figura di suo padre, Giorgio Ambrosoli.

mercoledì 1 giugno 2011

Il boicottaggio senza senso dei test INVALSI

Mia figlia Allegra è tornata a casa felice e mi ha detto: “Papi, domani ci saranno i test INVALSI”. Per i profani INVALSI sta per Istituto nazionale del sistema educativo di istruzione e formazione
L’obiettivo è di misurare - con test standardizzati predisposti dal Ministero - il livello di preparazione degli studenti italiani, in due aree: Lettura e Matematica.

Io ero preoccupato del buon esito delle prove perchè molti professori hanno boicottato i test, soprattutto nel Sud Italia. Il mondo della scuola ha paura dei test. Ma non è una novità. Il sistema Italia è abituato agli automatismi di carriera e all’appiattimento dei reward. Ma chi valuta non può non farsi giudicare.

Ascoltiamo il delirio dei Cobas contrari ai Test INVALSI, partendo dalle loro dichiarazioni: “Sono la premessa – spiega Piero Bernocchi, portavoce nazionale Cobas – alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti, esasperano la competizione e non servono neppure a migliorare la qualità della scuola....Le prove non sono affatto anonime e permetteranno una tracciabilità delle performance dai 7 anni in su: di fatto una schedatura delle competenze di massa e prolungata nel tempo”. Ma come parli, direbbe Nanni Moretti. Le parole sono importanti. Non siamo negli anni ’70!

Possono essere discutibili nei contenuti – per approfondimenti si rimanda a A. Martini, lavoce.info I test standardizzati presi tra due fuochi – ma sono utili perchè consentono confronti, nel tempo, tra scuole e aree geografiche, tra gruppi sociali. I test scolastici servono a identificare patologie, debolezze, carenze. Dovrebbero servire per capire cosa funziona e cosa non funziona per poi tentare di migliorare ciò che non funziona.

Come ben tramanda la saggezza popolare, se non ti poni il problema di misurare una cosa, significa che quella cosa per te non ha nessun valore.

Le critiche costruttive sono ben accette. Tutti i test sono perfettibili, compresi i test Invalsi. Vediamo cosa si potrebbe migliorare. Luca Ricolfi – Troppi test banalizzano la scuola, La Stampa, 10.5.11  – illustra lucidamente 4 punti deboli.

1. Il Ministero non ha mai chiarito fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti.
2. Per mancanza di risorse (in Olanda l’organismo che valuta il sistema scolastico è composto da 300 persone, in Italia 12 a tempo indeterminato più i soliti stagisti, cocopro, dottorandi, ndr) il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice.

3. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.
 4. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.


Torniamo sugli aspetti positivi dei test. Battistin e Schizzerotto in modo magistrale – L’Invalsi è democratico, lavoce.info – spiegano come la raccolta sistematica di basi informative sule competenze scolastiche è uno strumento necessario per calibrare politiche scolastiche in grado di garantire una maggiore efficacia dei processi di apprendimento e una riduzione delle disuguaglianze sociali: “Fornire un'immagine obiettiva della nostra scuola permette di ignorare il chiacchiericcio generato da narrazioni aneddotiche e consente la progettazione di interventi mirati, evitando sentenziosità arbitrarie. Del resto, ciò già avviene in molte società avanzate”.
La ricerca ha evidenziato grazie ai test che - nelle scuole della provincia di Trento - la reintroduzione degli esami di riparazione ha moderatamente accentuato le disuguaglianze cognitive già esistenti tra studenti liceali e degli istituti tecnici/professionali e, dunque, tra studenti di origine sociale diversa. È noto, infatti, che i liceali provengono per lo più da famiglie di ceto sociale superiore e che l'opposto vale per gli studenti degli istituti tecnici e professionali.

Chiudo con il parere di un amico imprenditore ed editore: “Il problema è che ci vorrebbero 1000 Roger Abravanel per ribattere alle continue critiche ai test e spiegare agli italiani che i test sono lo strumento che ha portato la meritocrazia negli USA, di cui l'Italia ha tanto bisogno!”