martedì 3 settembre 2013

Essere sudditi o cittadini? L'esempio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Quest'estate mi sono piacevolmente immerso nella lettura. Tra i tanti, mi sono intrattenuto in compagnia del Discorso sulla servitù volontaria, di Etienne de la Boetie (1533-1653).
In tempi dove la servitù volontaria è visibilmente presente interno a noi  - gli esempi sono innumerevoli - credo valga la pena rileggere insieme alcuni passaggi: "Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. E' il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che potendo scegliere se essere servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo: è il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca".

A me la lettura di Etienne de la Boetie ha fatto tornare in mente il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio 31 anni fa cadde assassinato insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e a un uomo della scorta, Domenico Russo.
Dalla Chiesa a Palermo nei suoi 100 giorni trovò il tempo per andare nelle scuole a dire ai giovani che i diritti devono essere fatti valere, altrimenti si diventa sudditi.
In un suo intervento del 1° maggio 1982, il Generale disse: "Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere nè ai prevaricatori, nè ai prepotenti, nè ai disonesti. Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma è anche un verbo. Ebbene, io l'ho colto e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni o almeno quelle che così estemporaneamente mi vengono in mente: poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l'interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che è fatta, è fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro, del lavoro di tanti

Tanti mi chiedono come mai torno su personaggi insigni della storia italiana. Lo faccio perchè sono di esempio per il presente, perchè possono essere di stimolo personale per ognuno noi.


Ho un ricordo nitido. Era il 4 settembre 1982. Entro in cucina, sento dei singhiozzi. Vedo mia madre piangere. Le dico: “Mamma, perchè piangi?”. E lei: “Hanno ucciso il Generale Dalla Chiesa”. E la foto della prima pagina di Repubblica con la A112 bianca crivellata di colpi e il Generale proteso per proteggere sua moglie Emmanuela rimase per sempre nel mio archivio mentale.

Il grandissimo Gianni Brera disse: “Dalla Chiesa era così intelligente che per fargli un degno piropo' non mancavo mai di esprimergli la mia meraviglia: come aveva potuto fare tanta carriera in Italia con un cervello così fino?”.

Cosa è cambiato dal 1982? Quando Marco Vitale nel suo Passaggio al futuro (EGEA, 2010) dice saggiamente che noi non dobbiamo fare riforme – inconcludenti – ma risolvere problemi, la prima piaga biblica che invita ad affrontare è il peso abnorme della malavita organizzata.

Le cifre fanno impressione: l’insieme della attività illegali in Italia ammonterebbe a 419 miliardi di euro l’anno, secondo le stime più accreditate. Nessun Paese ha, nel suo tessuto sociale ed economico, una presenza di tale spessore della malavita organizzata. 13 dei quasi 17 milioni di italiani che vivono in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia convivono con le mafie. Parliamo del 22% della popolazione italiana, non quisquilie.

E aggiungiamo che la corruzione diffusa rappresenta l’humus ideale per la malavita organizzata.


Il giudice Davigo ironicamente ha affermato che se la “cricca” degli appalti della Protezione Civile – per intenderci Anemone, Verdini, Bertolaso, Carboni - si fa pagare con assegni circolari (e non con il consueto contante) poi incassati nella banca allora guidata – ora con pesanti motivazioni commissariata dalla Banca d’Italia – da Verdini, significa che la convinzione di impunità regna serena.

Un sano sviluppo economico non è compatibile con un alto e diffuso livello di corruzione e di malavita. La mafia è arretratezza, non sviluppo.

Il giudice Gian Carlo Caselli ha ricordato: “Dalla Chiesa ha occupato gran parte dei suoi 100 giorni come Prefetto di Palermo a parlare ai ragazzi delle scuole, agli operai dei cantieri navali, alla cittadinanza. Perchè sapeva che l’antimafia “delle manette” deve intrecciarsi con l’antimafia “dei diritti”. Altrimenti non si risolve nulla”. Caselli ha definito in passato il Generale Dalla Chiesa "un servitore dello Stato fino all'estremo sacrificio".

Nell’intervista – testamento spirituale - a Giorgio Bocca pochi giorni prima di essere ucciso, il Generale Dalla Chiesa disse: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”.

Paolo Baffi
Nella mia ricerca storica sulla figura di Paolo Baffi - è uscito nel 2013 un saggio introduttivo al volume curato da me e Sandro Gerbi - ho trovato una significativa analisi di Marco Vitale, che in una Relazione del 1989 scrive: "Il potere è connaturato all'uomo; non esiste attività umana senza potere, e che non esiste potere senza responsabilità. La scelta è piuttosto tra i fini per i quali esercitare il piccolo o grande potere  che ci viene assegnato, tra potere responsabile e potere irresponsabile. Non dobbiamo fuggire il potere, anzi addestrarci a gestirlo, nelle grandi e nelle piccole cose, con responsabilità e per finalità positive. Paolo Baffi, il Generale Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli: questi uomini, semplicemente facendo fino il fondo il loro dovere professionale, esercitavano un potere. Ed è una grande fortuna, che, anche nei momenti più neri, vi siano uomini che non fuggono davanti alla necessità di esercitare, con responsabilità e per con l'accettazione consapevole dei rischi connessi, il loro potere".

Ti sia lieve la terra, caro Generale Dalla Chiesa.

2 commenti:

  1. Grazie di questa riflessione caro amico mio. E' anni che sostengo che la mafia non si combatte con le parole e i proclami ma solo dando quei diritti che lo Stato non riconosce e che obbliga il cittadino a trovare chi glieli eroghi...

    RispondiElimina
  2. Fioraso Eliseo13 set 2013, 15:40:00

    bellissimo ritratto del Generale, ma soprattutto quanta lucidità nell'analisi del fenomeno mafioso da parte di un uomo dello stato che prima ancora di essere un militare era un Cittadino consapevole.

    RispondiElimina