domenica 30 novembre 2014

Qualunque cosa succeda in TV - Essere responsabili significa essere garanti del proprio agire


Pierfrancesco Favino interpreta l'avv. Giorgio Ambrosoli
Stasera io, mia moglie e i miei figli vedremo insieme con interesse su Rai1 la fiction "Qualunque cosa succeda", che narra la storia dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana guidata dal banchiere bancarottiere Michele Sindona, mandante dell'omicidio.
Il film - diretto da Alberto Negrin - è tratto liberamente dal volume omonimo scritto dal figlio di Giorgio, Umberto Ambrosoli. Nella seconda edizione di Qualunque cosa succeda (Sironi, 2014), Umberto ha scritto una introduzione serrata e pregnante, dove racconta cosa gli hanno raccontato gli italiani nel corso delle (numerose) presentazioni del libro in tutta Italia. Umberto chiude i suoi ragionamenti con un insegnamento che gli ha insegnato suo padre, che vale per tutti: "Essere responsabili significa essere garanti del proprio agire".

Non posso fare a meno di segnalare la prefazione al volume di Carlo Azeglio Ciampi che ricorda l'operato del Governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi, nei giorni seguenti all'omicidio dell'Avvocato Ambrosoli: "L'avvocato Ambrosoli lascia tre figli di giovane età, Francesca di anni 11, Filippo di anni 10 e Umberto di anni 7 e la vedova Anna Lorenza Gorla, la quale deve ora affrontare la grave responsabilità del mantenimento e della loro educazione senza più disporre dell'unica fonte di reddito, rappresentata dall'attività professionale del marito. (...) volendo rendere concreta la commossa solidarietà della Banca, il Governatore propone (...) che l'Istituto dia un sostanziale concorso al mantenimento e all'educazione dei tre orfani sino al compimento degli studi".
Nell'Archivio Storico della Banca d'Italia (ASBI), Carte Baffi, Governatore Onorario, quando Annalori Ambrosoli scrive al Governatore, ringraziandolo per il sostegno economico della Banca d'Italia a favore dei figli, si legge: "La ringrazio perchè i miei figli possono ancora credere in un Italiano come lei". A stretto giro di posta, Baffi risponde così - 31 luglio 1979: "Quanto mi preme ora dirLe è che i Suoi figli dovranno continuare ad avere fiducia ed a credere in quei tantissimi italiani che certamente li portano nel cuore". Questa la stoffa dell'uomo.

Paolo Baffi con Carlo Azeglio Ciampi, 31.5.1978
Nel corso della fiction speriamo venga raccontata correttamente la vicenda giudiziaria che colpì la Banca d'Italia e in particolare Baffi e Sarcinelli. Baffi fu costretto a dimettersi. Dolente servitore dello Stato, non si riprese più dopo che quella manovra politico-giudiziaria lo costrinse alle dimissioni nel settembre 1979.

Nelle mie ricerche in ASBI - Carte Baffi, Governatore Onorario - ho trovato un intervento del 1983 di Adolfo Beria D'Argentine - procuratore generale presso la Corte d'Appello di Milano, riassunto così: "Di particolare interesse il richiamo del dr. Beria d'Argentine (allora segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati, ndr) 
al caso Baffi-Sarcinelli, come esempio tristemente noto di un’azione giudiziaria irresponsabile che, oltre a provocare danni gravissimi a persone oneste e ad un’istituzione tra le più stimate, ha segnato un momento di decadimento per l’intera Magistratura”.

P.S.: Il titolo "Qualunque cosa succeda" è ispirato alla lettera che Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie Annalori (a cui Marco Vitale ha dedicato un ritratto commovente in Angeli della città, ESD, 2009) nel febbraio 1975 (4 anni prima del suo assassinio), dove si legge: "Anna carissima, sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. E' indubbio che pagherò a caro prezzo l'incarico (...) Qualunque cosa succeda, tu sai cosa devi fare e sono certo che saprai fare benissimo".

lunedì 24 novembre 2014

La manipolazione delle "global banks" sul mercato dei cambi. La multa di 4,3 miliardi di dollari non è sufficiente

La notizia che ha occupato nelle settimane scorse le pagine dei principali quotidiani economici del mondo è stata la multa di 4,3 miliardi di dollari inflitta a sei banche internazionali: UBS, Royal Bank of Scotland, HSBC, JPMorgan, Citibank, Bank of America.

Come ha scritto il Financial Times - il cui motto della pagina dei commenti è "Without fear and without favour", si tratta di una criminal offense, per cui la pena non deve essere solo pecuniaria, ma dovrebbe prevedere anche il divieto di operare sui mercati.

Come ha scritto Donato Masciandaro sul Sole 24 Ore, se hai manipolato il mercato sei da cartellino rosso: "Occorrono misure drastiche. Da un lato, la definizione di prezzi rilevanti per l'economia mondiale non può più essere affidata ad oligopoli di poche banche. Dall'altro, occorrono punizioni efficaci, che certo non sono le sanzioni, anche miliardarie. Le banche ree confesse dovrebbero essere sottoposte a un ostracismo internazionale: sospensione temporanea di tutte le attività bancarie nei Paesi del G20".

Ha certamente ragione il prof. Masciandaro, direttore del Centro Baffi della Bocconi. Sono infatti anni che le maggiori banche nel mondo vengono sanzionate ma nulla cambia. Secondo le ricerche del prof. McCormick, tra il 2009 e il 2013 le 12 global banks hanno pagato 105,4 miliardi di dollari di multa ai regulators europei e americani.

Di recente, l'economista ed ex senatore della sinistra indipendente Filippo Cavazzuti nel paper dal titolo "Un racconto di "economia politica": protezionismo interno e suggestioni di politica economica sulla via italiana all'euro" ha ricordato il pensiero di Beniamino Andreatta. "Il mercato è uno strumento, il migliore strumento che sia stato inventato dall'esperienza collettiva degli uomini per produrre e distribuire risorse. Il mercato è uno strumento che non piace agli operatori economici anche se, ipocritamente, essi lo esaltano. Il mercato ha bisogno di polizia".

Ma quanto ha ragione ancora oggi Andreatta! Ci vuole la polizia per coloro che si beano, ipocritamente, dei benefici del mercato, e poi lo svillaneggiano con le manipolazioni continue, prima sul Libor e poi sul Forex.

Concordiamo con il Financial Times del 13 novembre: "In most businesses, the normal penalties for defrauding a customer include the risk of a jail sentence. If the authorities really want to change the culture of the trading desk, criminal sanctions must become a more vivid possibility".

lunedì 17 novembre 2014

"La via di fuga" di Federico Fubini: una storia di sicuro interesse


Federico Fubini e Beniamino A. Piccone
Settimana scorsa sono stato invitato come discussant - dagli amici di Guanxinet a Valdagno - al volume di una delle firme di punta di Repubblica, Federico Fubini.
La via di Fuga è il titolo del bel libro di Fubini, che prima di appassionarsi di economia, ha studiato il mondo greco, in particolare Tucidide e Platone (come Carlo Azeglio Ciampi, laureato in lettere classiche alla Normale di Pisa).

Il viaggio di Fubini è un viaggio nel tempo, dove le vicende della sua famiglia – con al centro il prozio Renzo Fubini – si intersecano con la crisi greca, e - con la tecnica del flash-back cara al mondo cinematografico – la crisi mondiale degli anni ’30. Scrive correttamente Fubini nei ringraziamenti che “davvero una famiglia a volte non è solo un luogo, ma un viaggio nel tempo”.

Fubini è andato alla ricerca di documenti che illuminassero la storia di Renzo, che si conclude purtroppo tragicamente ad Auschwitz nel 1944. Ha cercato anche negli archivi della Rockfeller Foundation, trovando dei docs interessanti. In particolare una lettera di Renzo Fubini al suo professore Luigi Einaudi, a cui chiede aiuto per espatriare (ebreo) con una borsa di studio della fondazione Rockfeller. La lettera è del 29 gennaio 1939, senza aggiungere il periodo dell’era fascista.
Nel 1937 l’allora governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini scrive al giovane Paolo Baffi invitandolo ad andare a studiare a Londra come è organizzato il Servizio Studi della Bank of England e, al contrario di Renzo Fubini, scrive, dopo la data “XV”: sono passati 15 anni dal 1922, inizio dell’era fascista. In un’altra lettera di Azzolini presso l’ASBI, si può leggere il timbro VINCERE. Che tempi bui.

Quando Renzo Fubini lavorava ormai da 4 anni a Trieste, nel 1937, sono gli anni del post “quota 90”, quando Mussolini causò (nel 1926) con una politica del cambio fallace – rivalutazione eccessiva verso la sterlina e il dollaro – una forte deflazione. Fubini scrive: “Prima di entrare in guerra, l’Italia era già esausta”, “le vendite di prodotti alimentari tra il 1935 e il 1938 sono scese del 28%”.
Benito Mussolini
Quando il cambio era di 153 lire per una sterlina l’obiettivo di Mussolini era raggiungere «quota 90», cosa che, dopo il pronunciamento durante il suo discorso di Pesaro del 18 agosto 1926, sembrò subito azzardata:

Noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue. Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira. […] La nostra lira, che rappresenta il simbolo della Nazione, il segno della nostra ricchezza, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa.

Il 21 dicembre 1927 il cambio venne fissato a 92,46 rispetto alla sterlina, corrispondente a quota 19 rispetto al dollaro. Rivalutare da 150 a 90 lire per sterlina fu un’esagerazione che portò all’apprezzamento del cambio «reale» del 30 per cento tra il 1925 e il 1935. Come scriverà Pierluigi Ciocca, «gli industriali chiesero compensazioni per la decurtazione della competitività e di profitti subìta. Le compensazioni vennero concesse, con tanta larghezza da spegnere lo stimolo alla ricerca dell’efficienza e dell’innovazione da parte delle imprese.

I profitti “facili” contribuirono a far scendere a zero il contributo del progresso tecnico alla crescita del PIL nel periodo fascista».

Negli anni successivi, di fronte alla svalutazione della sterlina nel settembre 1931, l’Italia mantenne fermo l’aggancio all’oro, determinando un ulteriore apprezzamento del cambio e un inasprimento della deflazione.

Da qui «un’ondata di fallimenti». Baffi spiega come si possa commettere un errore esiziale se, pur scegliendo il regime di cambio corretto, si sbaglia il livello del cambio. Con formidabile sintesi così conclude: «Mussolini aveva nella rivalutazione della lira una buona causa, che trovava consensi: con ampiezza di mezzi, la coltivò oltre il punto nel quale cessava di essere tale».

Lo vediamo anche oggi che in Italia, in una situazione di deflazione, la discesa dei prezzi rende ancora maggiore il peso del debito, che continua a crescere con gli interessi.
 
Guido Carli
“Il Piccolo di Trieste in quei mesi è pieno di teorie del complotto della finanza internazionale che ostacola l’ascesa dell’Italia”, scrive Fubini. Su questo punto valgono le parole di Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975 che in un passaggio di Cinquant’anni di vita italiana scrive parole memorabili: “Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascistica, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero interi pezzi della ricchezza nazionale...La tesi che denuncia piani destabilizzanti, orditi da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha il diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui Titoli della Repubblica o su quelli di altri Stati”.

 
Exit, voice or loyalty” (1970) di Albert Hirshman  è una delle chiavi di lettura del volume. Hirschmann spiega con chiarezza come le persone reagiscono al degrado di un’impresa, di un’organizzazione o di un paese cui appartengono.
Se lo abbandoni (exit, come Piero Gobetti, che fugge a Parigi, dove morirà in seguito a pestaggi violenti di squadre fasciste), il tuo mondo può fartela pagare a caro prezzo. Il restare leali (loyalty), costringe a negare a se stessi problemi evidenti, voltandosi dall’altra parte per non vederli, pur di non ammettere che la fedeltà è stata un errore.
Una quarta via d’uscita a o variante della loyalty è il rifiuto della realtà. “E prima o poi finisce in disfatta”. La negazione della realtà, il denial, verrà replicato in Grecia nel 2011-2012. “Erano i mesi (p. 52) in cui la Grecia cercava di risvegliarsi dall’illusione di poter comprare il progresso con debiti che poi sarebbe bastato rimuovere dai dati. Con l’ingresso nell’euro gli aumenti di stipendio dei dipendenti pubblici erano stati di circa il 250 per cento in dieci anni, il doppio rispetto all’Italia o alla Francia, e il loro numero era anche raddoppiato. La gente si era abituata a veder migliorare il proprio tenore di vita ogni anno senza per questo dover lavorare di più. I politici acqusitavano popolarità fra i cittadini con il denaro dei cittadini stessi, o dei loro figli che avrebbero dovuto pagarne i debiti, nascondendo loro il prezzo fin quando era stato possibile. Nessuno si poneva domande sull’origine di quella prosperità, almeno non in pubblico”.
Alla fine di agosto del 1938, Hirschmann lascia Trieste – sua sorella Ursula sposa Eugenio Colorni, uno dei leader dell’antifascismo, poi assassinato poco prima della fine della guerra - per tornare a Parigi, per poi partire per gli Stati Uniti (1941). Per la cronaca, Ursula poi sposerà Altiero Spinelli da cui avrà tre figli, tra cui Barbara Spinelli, politologa di vaglia, oggi parlamentare europeo nella lista Tsipras.
Questi miei sono solo degli spunti. Se volete approndire, leggete il libro di Federico Fubini. Ne vale la pena.
 
 
 





lunedì 10 novembre 2014

Montanelli, Falcone e i "professionisti dell'antimafia"

La pagina di Società Civile del novembre 1989
In queste settimane l'opinione pubblica ha dedicato molta attenzione alla deposizione del presidente Giorgio Napolitano nel corso del processo in corso a Palermo che ha al centro la presunta trattativa tra Cosa Nostra e apparati dello Stato.

E' interessante da un punto di vista storico ricordare come la stampa seguì gli eventi e quale posizione presero i quotidiani più importanti.
Mentre Repubblica si schierò decisamente a favore dei magistrati siciliani - Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in primis - il Corriere della Sera attaccò duramente i giudici di Palermo. Con un editoriale di prima pagina (10 gennaio 1987) la penna prestigiosa di Leonardo Sciascia diede al via a una forte polemica sui "I professionisti dell'antimafia". Tutto nacque dalla promozione di merito quale Procuratore della Repubblica di Marsala – caso raro al Consiglio Superiore della Magistratura, che fonda le sue valutazioni sull’anzianità – di Paolo Borsellino.
Lo scrittore siciliano si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso".  Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone: "Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell'antimafia".

Che bella carriera hanno fatto Falcone e Borsellino!

Recentemente gli storici Sandro Gerbi e Raffaele Liucci nel loro pregevole volume Indro Montanelli. Una biografia (1909-2001) - Hoepli, 2014 - raccontano la politica editoriale di Montanelli, che - dalle pagine de Il Giornale - criticò per lungo tempo i magistrati impegnati sul fronte del contrasto alla criminalità.
Dopo il fallito attentato dell'Addaura a Falcone (21 giugno 1989), Montanelli capì di non aver ben compreso la posta in gioco e cercò di cambiare la politica del giornale. Contattò il sostituto procuratore di Milano Armando Spataro, al quale chiese una lettera a difesa del pool antimafia, che però non venne mai pubblicata.
Spataro - oggi procuratore capo a Torino - scrisse (lettera pubblicata dal mensile Società civile nel novembre 1989): "Lei è conosciuto e stimato per la sua indipendenza di giudizio, la sua autorevolezza è fuori discussione: faccia in modo che l'una e l'altra non siano strumentalizzati da chi ha interesse a distorcere la verità. Si faccia promotore, personalmente e attraverso le colonne del quotidiano da Lei diretto, di una campagna nuova, che miri a creare un fronte antimafia unitario, che non tenga conto del colore politico o della professione di quanti vi parteciperanno, ma solo dell'onestà del loro impegno; si adoperi per ricucire una spaccatura fin dove è possibile e perchè, finalmente, a trovarsi isolata risulti la cultura mafiosa".

Spataro partì per le vacanze in Grecia, cerco con fatica di comprare Il Giornale, per vedere se Montanelli gli dava spazio, ma la lettera non venne mai pubblicata. La redazione evidentemente si oppose.

Montanelli farà una parziale virata, ammettendo pubblicamente di essere stato "tratto in inganno dal giudizio che ne dava il mio fraterno amico Leonardo Sciascia" (Un errore riconosciuto, Il Giornale, 27 giugno 1993).
Falcone e Borsellino erano già all'altro mondo.

P.S.: martedì alle 18 alla libreria Hoepli, in via Hoepli a Milano, Sandro Gerbi e Raffaele Liucci presenteranno il loro volume Indro Montanelli. Una biografia (1909-2001).

lunedì 3 novembre 2014

L'Italia ha bisogno di maggiore concorrenza, ma la gente non la vuole perchè welfare inadatto a distruzione creativa

Settimana scorsa la Banca d'Italia, in particolare la Divisione Storia Economica e Finanziaria guidata da Alfredo Gigliobianco, ha organizzato un interessante convegno dal titolo: Concorrenza, mercato e crescita: il lungo periodo.
Gli interventi si sono susseguiti nel corso delle due giornate. Gli stimoli e le riflessioni sono innumerevoli.

Mi concentro sulle conclusioni, articolate da Gianni Toniolo, il quale ha evidenziato come la concorrenza - attraverso la distruzione creativa (Schumpeter, cit.) - crei dei vincenti e dei perdenti. Questi ultimi necessitano di sostegno da parte della fiscalità generale, che deve supportare il cambio e la ricerca di un nuovo lavoro con la formazione, le politiche attive.
Se un'impresa viene sconfitta dal mercato, per evitare che i lavoratori si leghino con le catene ai cancelli o salgono sul silos per protestare - come avviene solitamente nel nostro Paese - è necessario che il welfare funzioni. E qui nascono i problemi.
Infatti in Italia non è stato creato un welfare a sostegno della concorrenza. Il nostro welfare è stato disegnato per periodi di crescita infiniti (da Miracolo economico) e senza discontinuità.
In un'epoca dove anche un campione come la Nokia viene spazzata via dal mercato dei cellulari, dove gli scenari cambiano in un battibaleno, nel mondo liquido così ben descritto da Bauman, è indispensabile avere un welfare di politiche attive, che non ostacolino e facilitino il passaggio da un lavoro ad un altro.

Cosa ci ha lasciato la fallimentare classe dirigente degli ultimi 30 anni? Un welfare basato esclusivamente su politiche passive (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, cassa in deroga, mobilità, prepensionamenti), le quali si concludono inevitabilmente su un sistema pensionistico che sostiene i pensionandi fin da giovani (a 45 anni si entra in cig, poi in mobilità, poi si va in pensione, che viene naturalmente calcolata con il sistema retributivo, così pagano le generazioni successive, bello no?).

Come ha sottolineato Giacomo Vaciago, è chiaro che il sistema di tutele è avverso alla concorrenza. Gli italiani non vogliono più concorrenza - ne abbiamo già parlato in passato in concorrenza bene pubblico - perchè non vogliono sostenerne i costi. La crescita crea dei perdenti che l'italiano non desidera. L'Italia aspira al pareggio perchè per vincere bisogna anche prendere in considerazione la possibilità di perdere.

Secondo le ricerche della Banca d'Italia (Forni L., Gerali A., Pisani M.) - Effetti macroeconomici di un maggior grado di concorrenza nel settore dei servizi: il caso dell’Italia, Tema di discussione n. 706, marzo 2009 http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td09/td706_09/td_706_09 - con liberalizzazioni nel settore dei servizi e della distribuzione, il Pil italiano avrebbe dei benefici significativi. Ma come ha sottolineato Mario Draghi, citando Carlo Maria Cipolla, già nel Seicento lo sviluppo economico italiano si bloccò: “Il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera”.

Ernesto Rossi
E' vitale mettere mano al welfare state basato solo su pensioni e politiche passive. Come scrisse il compianto Ernesto Rossi, tra i fondatori di Giustizia e Libertà, arguto commentatore sul Mondo di Pannunzio, dobbiamo combattere l'assistenzialismo parassitario, per creare uno sistema capace di combattere la miseria senza creare dipendenze: "I sindacati degli operai delle grandi imprese si valgono per innalzare barriere sempre più alte in difesa di queste oasi di privilegio...bloccano i licenziamenti togliendo così la convenienza di tentare nuove strade e di iniziare  nuovi lavori che potrebbero occupare saltuariamente la mano d'opera. (...). Il dinamismo economico ha un costo...rifiutarsi di pagare questo prezzo  significa rinunciare al progresso" (Il Malgoverno, cit.).