martedì 29 marzo 2016

Il gioco d'azzardo, piaga italiana

Qualche settimana fa alla LIUC-Università  Cattaneo, dove insegno Sistema finanziario col mio collega Antonio Caggia, è stata organizzata una lezione speciale curata da alcuni matematici e fisici di Torino, che hanno creato la società Taxi 1729 che porta avanti nelle scuole e università progetti diretti alla divulgazione di quanto il gioco d'azzardo si prenda gioco di noi.

Col motto Fate il nostro gioco (anche il titolo del libro, Add editore) Paolo Canova, Diego Rizzuto e Sara Zaccone hanno tenuto una lezione strepitosa. Un'ora e mezza di spiegazioni veloci, dinamiche, immagini, test, che hanno riscosso un grande successo tra gli studenti.
L’idea è di usare la matematica come strumento di prevenzione, una specie di “antidoto logico” per immunizzarsi almeno un po’ dal rischio degli eccessi da gioco. Perché, ne siamo convinti, la matematica è esercizio di pensiero critico, un’occasione per creare un’opinione consapevole nei cittadini, specialmente nei ragazzi, in un ambito in cui molto si basa sulla scarsa conoscenza delle leggi che governano la sorte.

Qualche dato. Nel 2015 sono stati 23 milioni gli italiani che hanno gioccato in lotterie, scommesse e slot machine, spendendo complessivamente 88 miliardi di euro, perdendone 24. Molto più del gettito Imu sulla prima casa. In media ogni italiano, neonati compresi, ha giocato in un anno oltre 1.400 euro per tentare la fortuna.

Per rendere viva e partecipe la lezione - tenere i ragazzi attenti per due ore è una missione molto difficile, vista la tentazione di messaggiare o giocare con lo smart phone - Canova e Rizzuto hanno distribuito a tutti un fac simile di una scheda di gioco di Win-for-life, gioco di grande successo escogitato dalla Sisal.

Per vincere a Win-for-life è necessario indovinare alcuni numeri estratti rispetto ai primi 20 numeri da zero a 20. Si vince con 0, 1, 2, 3, 7, 8, 9 e 10. Uno può erroneamente pensare che si vinca nella maggior parte dei casi. Invece la statistica ci dice che nell'82% dei casi si perde. Indovinare 3 o 7 numeri (su 20) costituisce singolarmente il 7,4% delle probabilità. Di solito si fa 4, 5 o 6 (in totale nell'82,2% dei casi).
La cosa tricky del gioco è che nel 14.8% dei casi si vince quello che si è giocato, ossia 2 euro.
Se sommiamo il 14,8% all'82,2%, nel 97% dei casi non si vince nulla o si vince ciò che si è scommesso. La psicologia fa sì che se si sono scommessi due euro e si vincono due euro, si pensa di aver vinto, mentre non si è vinto alcunchè (2 meno 2=0).
E' molto probabile quindi che chi vinca due euro, torni a giocare perdendoli subito. La voglia di continuare, illudendo il giocatore a cui viene regalata l'illusione di vincere sta alla base del gioco. Non è stupido chi gioca. E' veramente geniale chi ha inventato Win-for-life. Anyway, la probabilità di fare 10 è 1 su 1.847.560. E' più probabile che un asteroride colpisca la Terra nel 2048.

Pagano i gonzi, però. E lo Stato, con l'ingente gettito tributario, incassa il bottino. Tra il 1999 e il 2009 le scommesse hanno fatto incassare in media all’erario il 4 per cento sul totale delle imposte indirette e, in termini assoluti, hanno contribuito alle casse statali con una media di 9,2 miliardi di euro all’anno.

Come hanno evidenziato Sarti e Trimenti sulla voce.info a giocare di più sono le classe più povere della popolazione: "le famiglie con redditi più bassi tendono a spendere una percentuale del loro reddito più alta rispetto alle famiglie più ricche. Le famiglie giocatrici più povere spendono circa il 3 per cento del loro reddito in questo tipo di giochi, mentre quelle più ricche spendono meno dell’1 per cento.  Dato che i giochi di pura fortuna portano in media a una perdita di denaro perché sui grandi numeri “il banco” vince sempre, la spesa in giochi si traduce a tutti gli effetti in una sorta di “tassazione volontaria” di tipo regressivo e in un più generale fattore di disuguaglianza socio-economica".

giovedì 24 marzo 2016

Come reagire al terrorismo islamico? Come gli inglesi in biblioteca dopo le bombe tedesche

Dopo l'ennesimo attentato da parte dei terroristi islamici - questa volta, dopo Parigi, a Bruxelles - il centro dell'Europa e degli uffici della Commissione Europea, ci si chiede come reagire. Non uscire più di casa non ha senso, la vita va avanti.
A parte la necessità di coordinamento delle polizie europee e dell'intelligence (quella belga lascia a desiderare, vedi lo scandalo Dutroux), penso che a livello individuale sia necessario costruire strategie per contenere l'ansia. Come ha detto lo psicoanalista Massimo Ammaniti sul Corriere della Sera di ieri "di fronte a un terrorista che costituirà purtroppo una presenza costante, ci dobbiamo equipaggiare suo piano psicologico per non soccombere all'ansia".

Ammaniti suggerisce - e mi trova concorde - di prendere come modello di riferimento la Gran Bretagna guidata da Winston Churchill, tenace Prime Minister durante la battaglia contro Hitler: "Ho in mente un'immagine legata alla Seconda Guerra mondiale, la biblioteca (di Holland Park, ndr) dove ci sono persone che, tra le macerie, cercano libri per leggerli. E' una bellissima rappresentazione di ciò che si dovrebbe fare oggi".
Sta in noi reagire in modo costruttivo. Ma siamo in guerra. Ricordiamocelo. Diamoci da fare.

lunedì 14 marzo 2016

Omaggio a Marco Biagi, giuslavorista di talento

Marco Biagi
In quale Paese al mondo i giuslavoristi e gli economisti del lavoro vengono ammazzati o devono viaggiare sotto scorta? Suvvia, lo sanno tutti, stiamo parlando del Belpaese.
Visto che la memoria è l'arma dei deboli contro i forti, cogliamo l'occasione per ricordare Marco Biagi, professore di diritto del lavoro, ammazzato dalle cosiddette Nuove Brigate Rosse il 19 marzo di 14 anni fa.

Martedì 19 marzo 2002 Biagi tenne una lezione a Modena, e come sempre, se n'era tornato in treno a Bologna, poi con la bici fino a casa. Qui, mentre apriva il portone, s'era sentito chiamare alle spalle, neanche il tempo di voltarsi e si trovò colpito a morte da sei colpi di pistola.
L'arma usata è una calibro 9, la stessa usata il 20 Maggio 1999 per l'omicidio di Massimo D'Antona.

La vedova di Biagi, Marina Orlandi, tempo fa ha ricordato che il marito voleva proteggere i giovani precari: "Proprio nei giorni prima di essere ucciso, ricordo che Marco mi parlava di una cosa che riguardava i ragazzi. Era consapevole che la società si stava trasformando e che avere un lavoro per tutta la vita, lo stesso a tempo  indeterminato, sarebbe stata una cosa praticamente impossibile, sarebbe arrivata tardi nella vita delle persone. Aveva in mente che bisognava difendere i lavori brevi. Purtroppo, ci sarà questa  precarietà, diceva Marco, pero' dobbiamo renderla una precarietà protetta, fare in modo che le persone che hanno un lavoro protetto abbiano anche dei diritti, siano protette, che una persona non trovi un lavoro in nero".

Dobbiamo a Biagi il Libro bianco sul mercato del lavoro. Collaboratore del Sole 24 Ore, quella mattina, in prima pagina, comparve il suo ultimo articolo, dal titolo "Chi frena le riforme è contro l'Europa".
Dopo l'omicidio scoppiarono giustamente le polemiche per la mancata scorta. Se nel luglio 2000 i responsabili della sicurezza gli assegnarono un servizio di tutela, nel settembre 2001 quell servizio fu abbandonato per "cessate esigenze". Va detto che il Ministro del Lavoro di allora Roberto Maroni chiese più volte al Viminale di ripristinare la protezione a Biagi. Il ministro dell'Interno Scajola si dimise successivamente a seguito dell'indignazione popolare seguita alla tremenda dichiarazione riportata dal cronista del Corriere della Sera: "Marco Biagi era un rompicoglioni". Lo stesso Scajola che comprava immobili al Colosseo a "sua insaputa".

La bici di Biagi illumina il futuro (Il Sole 24 Ore)
L'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, con cui Biagi collaborò, ebbe a dire: "Marco Biagi cercava di razionalizzare il capitalismo e non glielo hanno perdonato".

Dopo l'omicidio di Ezio Tarantelli, la gambizzazione di Gino Giugni, l'assassinio di Massimo D'Antona e di Marco Biagi. Povera Italia. Speriamo di non vederne più di questi atti di barbarie contro il pensiero libero.






martedì 8 marzo 2016

La Reggia di Caserta, un altro esempio nefasto del sindacalismo nostrano

In Italia la più grande stortura del mercato del lavoro è la drastica differenziazione di diritti e doveri tra il dipendente pubblico e il suo omologo privato.

Il dipendente pubblico può stare in malattia (spesso immaginaria, vedasi Moliere), quanto vuole, timbrare l cartellino per poi andare in canoa (vedasi il Comune di Sanremo), organizzare pletore di assemblee sindacali in orario di lavoro (mentre magari i turisti sono in coda al Colosseo in attesa di entrare), avere una produttività di un bradipo (come magistralmente raffigurato in Zootropolis), avere degli orari di lavoro a proprio piacimento (Checco Zalone ha dato il massimo in Quo Vado ).

L’ultima vicenda della Reggia di Caserta è l’ultimo episodio a metà tra la farsa e la tragedia. Il neo direttore Mauro Felicori è stato accusato da alcune sigle sindacali di mettere a rischio la Reggia poiché resta in ufficio “fino a tarda ora senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza”.

Il punto dolente è che il direttore bolognese Felicori lavora troppo, si dà troppo da fare, è attivo, al contrario del suo predecessore. Non essendo storico dell’arte (scelto dal governo con un bando internazionale), Felicori ha stravolto l’organizzazione della Versailles italiana (modificato organigrammi, uffici e compiti) portando risultati eccellenti: +70% di presenze nel febbraio 2016 rispetto al 2015.

I sindacati non sopportano chi lavora, dimostrando in tal modo di tutelare chi non ha voglia di lavorare. Fa specie che mai alcuna parola si sia levata da parte dei sindacati per denunciare le famiglie abusive che vivono dentro la Reggia di Caserta. Renzi ha avuto buon gioco nel dire che “la pacchia è finita”. Magari fosse così. Questa gente se ne può stare bellamente in malattia, con i medici compiacenti, per i mesi invernali in attesa dell’estate quando si potrà timbrare e andare al mare in Costiera.

Chiudiamo con le belle parole di Felicori: “Se mi accusano di lavorare troppo mi fanno un complimento, c’è tanto da fare qui che mi sento obbligato a lavorare molto. Lo richiede la situazione in cui si trova la Reggia, ma anche la comunità casertana che sta riscoprendo l’orgoglio civico…La pubblica amministrazione è il personale che ci lavora. Mi ritengo un dirigente di idee…Sento una grande responsabilità, la Reggia è l’industria di Caserta”.

A fronte dei tanti quaraquaqua (Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, cit.) abbiamo persone nel pubblico impiego che lavorano duramente e sentono dentro di loro il fuoco del fare e dell’accountability. Premiamoli e mandiamo a casa chi si ostina a pensare che gli asini volano.