mercoledì 31 maggio 2017

L'ascensore sociale si è bloccato in Italia? Non è detto

Francesco Bruno, ottima penna di Econopoly, settimana scorsa ha concentrato la sua attenzione sulla scuola  come fattore di mobilità sociale.

Bruno coglie nel segno. La scuola è decisiva. E’ il solo strumento per dare una chance – non la certezza, ahinoi – alle nuove generazioni. Sentite cosa scrive Luigi Einaudi nelle Prediche inutili (Einaudi Ed., 1959): “Soltanto insegnanti capaci danno garanzia che i giovani siano, dopo esame rigoroso e imparziale, promossi meritatamente dall’uno all’altro grado della scuola... Sterminati i programmi, troppe le discipline insegante ed alternate ad ore; gli insegnanti affannati a correggere i compiti, a leggere o far leggere testi antologici, non hanno tempo alla conoscenza intima dei giovani”.

Una volta assodato che la preparazione scolastica degli studenti italiani ha una variabilità mostruosa all’interno delle singole regioni – svantaggiando clamorosamente gli studenti del Sud, che vengono apparentemente “aiutati” con bei voti di maturità, che nella vita valgono ben poco – è interessante guardare ad alcuni dati comparati tra Italia e Stati Uniti di recente presentati alla Fondazione Rodolfo Debenedetti.

L'american dream, il "sogno Americano" è agli occhi di tutti sempre funzionante. Negli Stati Uniti puoi farcela anche se parti dal basso. Madonna, Lady Gaga, Steve Jobs (il cui padre naturale era siriano), Sergey Brin co-fondatore di Google ce l'hanno fatta. Ci hanno provato e hanno avuto successo. Vogliamo parlare di Jeff Bezos di Amazon, ormai multimiliardario in dollari?

Eppure le ultime ricerche, che racchiudono un campione maggiore, ci dicono che l'ascensore sociale negli Stati Uniti è in realtà meno efficace che in Italia, per le classi meno agiate.

Sabato scorso, alla conferenza europea della Fondazione Rodolfo Debenedetti, tre economisti - Paolo Acciari del ministero dell'Economia, Alberto Polo della New York University e Giovanni Violante di Princeton University - hanno presentato il loro lavoro - 'And Yet, It Moves': Intergenerational Economic Mobility in Italy - che documenta come la società italiana è meno bloccata di quanto risulti da studi precedenti.

I tre autori hanno abbinato i dati reddituali di un vastissimo campione di italiani, abbinando attraverso i codici fiscali circa 650mila coppie di genitori nati tra il 1942 e il 1963 - e di figli nati tra il 1972 e il 1983.

Come spesso avviene il Sud vive un mondo a parte. Infatti chi nasce nel Mezzogiorno ha molte meno probabilità di migliorare sensibilmente la sua posizine economica di chi è bambino e poi giovane e adulto nel Nord-Est. All'interno del Belpaese il grado di mobilità ha una forte variabilità. A Bergamo, per esempio, quinta nella classifica della mobilità ascendente, la situazione è molto diversa rispetto a Palermo, al centotreesimo posto.

La ricerca risponde anche al quesito se il sistema Italia favorisce il perpetuarsi di situazione favorevoli tra generazioni. Si può dire di sì. Infatti per ogni cento nati da genitori che siano nella prozione più alta della distribuzione del reddito (sopra i 50mila euro annui), "almeno 35 manterranno da adulti la posizione dei genitori".

Se si prendono 100 figli di genitori nella fascia più bassa di reddito - sotto i 15mila euro - solo 10 di loro riusciranno ad arrivare tra chi guadagna oltre 50mila euro.

Dal confronto con gli Stati Uniti emerge come l'Italia offra una maggiore mobilità intergenerazionale per coloro che vengono dal 30% di famiglie con un reddito basso. Se i figli provengono dalla classe media, gli Stati Uniti offrono più chance. Naturalmente, in un sistema economico che cresce, le opportunità sono maggiori per tutti in termini assoluti. Se la crescita stenta o langue, si può parlare con Cechov di “egoismo degli sventurati” che lottano tra di loro per un tozzo di pane.

Luigi Einaudi
E comunque, sempre con Einaudi, la competizione, la concorrenza è un enzima formidabile: “Solo nella lotta, solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a vittorie ed insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere”.

P.S.: Quest articolo è uscito in contemporanea anche su Econopoly, blog del Sole 24 Ore, curato da Alberto Annichiarico.

 

giovedì 18 maggio 2017

L'ondata migratoria e il mercato del lavoro italiano: impariamo da Spontini

Dopo anni in cui i migranti - con la complicità della situazione perenne di instabilità del Medio Oriente, dove il dittatore siriano Assad ha ammazzato (e continua a farlo) numerosi suoi concittadini - arrivano numerosi in Europa e sul territorio italiano (molti dalla Libia  -porto di partenza - divisa in tribù dopo l'assassinio di Gheddafi), alcuni ingenui parlano ancora di "emergenza immigrati". Così come i "mercati emergenti" non esistono più, sono belli che emersi, così è ora di compiere dei ragionamenti strategici sul futuro demografico italiano.

Gli immigrati non vanno lasciati nei centri di accoglienza - spesso di parla di C.a.r.a., che significa Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo" - per mesi senza fare nulla. Vogliamo parlare del Cara di Capo Rizzuto dove ai migranti viene somministrato cibo per maiali? Le persone in arrivo vanno educate e valorizzate. Perchè non impariamo dai tedeschi che organizzano corsi di tedesco ai migliaia di siriani in arrivo? Noi italiani perseguiamo il modello passivo. Diamo da mangiare e stop. Non chiediamo nulla. Così la gente appena buca le reti, scappa e va alla ricerca di un lavoro nel nord Italia o in Europa.
La sociologa Chiara Saraceno su Repubblica ha scritto: "Lo Stato finge di ignorare che concentrare masse di persone tutte insieme, affidandole a "impresari dell'accoglienza" che nulla sanno in che cosa consista, è la via sicura per creare emarginazione, imbroglio, maltrattamenti".

Tempo fa ho raccontato il modello "Riace", paese calabrese (RC), rinato grazie agli immigrati, che il sindaco e la comunità del paese hanno instradato ai lavori manuali. Domenico Lucano, primo cittadino di Riace ha detto: "Abbiamo utilizzato le case abbandonate del centro storico per trasformarle in centri d'accoglienza. Abbiamo fatto assolutamente l’impossibile per i migranti e dato una risposta chiara trasmettendo un messaggio d'umanità: è possibile una dimensione alternativa ai ghetti, alle barriere e ai cancelli". Dei duemila abitanti di Riace, più di 500 non sono nati in Calabria. Arrivano dall'Afghanistan, dal Senegal, dal Mali, hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo e a Riace hanno trovato una casa.
Qui non ci sono centri d’accoglienza, qui ai migranti diamo una casa vera”, ha detto Lucano. Hanno salvato Riace da povertà e desertificazione. Strade e case svuotate dall’emigrazione sono state ripopolate da una comunità multietnica che ha riportato in vita anche gli antichi mestieri. Hanno riaperto laboratori di ceramica e tessitura, bar, panetterie e persino la scuola elementare.


Dobbiamo accogliere i migranti - un tempo eravamo noi a cercare fortuna nelle "Americhe" -, forniamo loro l’istruzione necessaria e facciamoli lavorare. 
Un esempio in tal senso è fornito da Spontini, storica pizzeria milanese, nata in via Spontini, e ora, grazie alla fattiva abilità e determinazione di Massimo Innocenti - uomo dalle mille energie - intenta ad allargare il proprio raggio di azione, con l'apertura di numerosi punti vendita, sia a Milano che fuori.
Massimo Innocenti
Innocenti, invece di andare ai convegni - come fanno molti imprenditori - e bearsi a parole di meritocrazia - agisce. Parla con i fatti. Che contano di più. E' convinto che spesso gli immigrati abbiamo più voglia di lavorare, siano più motivati. Hanno il "chill in the belly". Nelle pizzerie di Spontini ben 64 dipendenti su 178 (ben il 36%) sono stranieri.
Aver vissuto un'infanzia difficile è un incentivo a riscattarsi. Quante volte vediamo figli viziati, abituati a tutti gli agi? Come ha ragione lo psicanalista Massimo Recalcati quando parla della fine del desiderio. Se ho tutto, cosa posso desiderare? Se i padri dicono solo sì - per quieto vivere - diventiamo una società senza Legge e senza padri, come scrive Eugenio Scalfari.

Alla pizzeria Spontini in piazza cinque Giornate lavora come direttore Aleksander Gjegji, 45 anni. Un fedelissimo. Lavora da Spontini 20 anni. Ha iniziato come cameriere nella prima pizzeria in via Spontini, è diventato responsabile di sala per poi crescere fino a diventare responsabile di negozio nel 2011, quattro anni fa.
Aleksander è arrivato in Italia nel 1999. In Albania era poliziotto, poi è andato in Svizzera per fare un corso di perfezionamento e da lì si è spostato in treno in Italia. Si è licenziato da poliziotto ed è rimasto nel nostro paese. Ha trovato subito lavoro come cameriere a Rimini, dove è rimasto 5 anni. Avendo però parenti che vivono a Milano, veniva spesso in città. Un giorno, passando per Via Spontini, ha visto per caso l’annuncio di ricerca del personale attaccato sul vetro della pizzeria, è entrato. Ha parlato col Sig. Innocenti che gli ha concesso subito un periodo di prova e così è diventato aficionado di Spontini.

Aleksander è molto grato a Spontini, gli ha permesso di realizzarsi. Si è creato una famiglia, ha sposato una ragazza albanese che adesso vive con lui a Milano. Tre figli, perfettamente integrati, che parlano italiano, inglese ed albanese.
I demografi continuano a segnalare la decrescita - mica tanto felice - delle nascite. Siamo rimasti 60 milioni negli ultimi 20 anni solo grazie agli immigrati e al fatto che le donne straniere in età fertile  fanno più figli delle madri italiane. Abbiamo perso la fiducia nel futuro. Non è questione di reddito. Gli immigrati stanno meno bene di noi. Ma vedono prospettive che noi non vediamo più, chiuso nel nostro bozzolo depresso.
Come dice il nuovo presidente appena eletto Emmanuel Macron, dobbiamo tornare a sperare, a uscire dalla paura, ad aver fiducia nel futuro. Sta in noi (Donato Menichella, cit.).
 

venerdì 12 maggio 2017

Attenzione ai CEO Napoleone: vogliono fare tutto da soli e portano le imprese al disastro

Un volume a cura di Mario Minoja - uscito grazie alla collaborazione del Comitato scientifico dell’Istituto per i valori di impresa (ISVI)Il buon governo. Insegnamenti dalle storie di imprese, istituzioni e realtà locali (Egea, 2016) invita a riflettere sulle interazioni tra valori e atteggiamenti e strategie di successo. Come scrive nella presentazione l’imprenditrice (INAZ) Linda Gilli sono decisivi i valori di integrità, innovazione, ricerca e apprendimento continui; gli atteggiamenti di curiosità, resilienza, fiducia nel futuro. Altrimenti non si va da nessuna parte.

Con il solito stile sferzante e documentato, Marco Vitale invita a imparare dalle storie di insuccesso. Troppo spesso di parla di imprese che funzionano. Riprendendo uno studio approfondito (del 2003) di Sydney FilkensteinWhy smart executives fail and what you can learn from their mistakes”- Perchè gli amministratori delegati falliscono e cosa si può imparare dai loro errori -, l’economista d’impresa bresciano sviluppa le sette cattive abitudini dei CEO che provocano grandi disastri aziendali.

Napoleone Bonaparte
Come si riconosce un Chief executive officer di tale fattura?

1.      Vedono loro stessi come dominatori e non reagiscono ai cambiamenti; è il classico errore della hubris, non ci si pone mai la domanda “dove stiamo sbagliando, da dove vengono i nuovi rischi?”. La loro sicurezza, o meglio sicumera, non li porta mai a dubitare della validità delle azioni. Avendo solo certezze, la direzione non prevede correzioni di rotta. I suggerimenti esterni non vengono ascoltati. 

2.      Si identificano in modo completo con l’azienda; non ci sono confini tra i loro interessi personali e quelli dell’organizzazione; è un pensiero frutto della concezione proprietaria. Il “fasso tutto mi” spesso degenera e crea servilismo. Non essendo ascoltati, i collaboratori evitano di utilizzare a dovere il senso critic.

3.      Sembrano avere tutte le risposte, in modo rapido e impulsivo; è pur vero che il mondo oggi viaggia a cinquecento all’ora, ma la strategia non si improvvisa, devono esserci studio e riflessione. La condivisione è necessaria. Carlo Azeglio Ciampi ricorda come l’atto volitivo, il decidere, sia quanto mai importante, visto che non decidere è decidere. Ma prima di scegliere Ciampi riuniva i collaboratori e li invitava ad affrontare il problema e a proprre soluzioni.

4.      Eliminano tutti coloro che possono ostacolare i loro sforzi; è notizia di pochi giorni fa che il CEO di Barclays Bank Jes Staley stava tramando e ostacolando un dipendente whistleblower che ha denunciato i suoi comportamenti scorretti; colui che “soffia nel fischietto” deve essere tutelato, non ostacolato. La governance della società deve prevedere meccanismi operativi tali da proteggere chi denuncia irregolarità aziendali. Se non ci fossero stati i “whistleblower”, gli scandali di Lehman Brothers ed Enron non sarebbero emersi.

5.      Sono dei portavoce instancabili dell’azienda; ma bisogna saper parlare sui fatti, non sulle favole, altrimenti è propaganda becera. La comunicazione non deve essere fine a se stessa. Se c’è incoerenza tra ciò che è e ciò che si comunica, il cliente perde fiducia nei confronti dell’impresa e del suo gruppo dirigente.

6.      Affrontano ostacoli spaventosi come impedimenti passeggeri; a furia di considerare i problemi strutturali come congiunturali, si perde di vista la forza dell’errore, che deve indurre correzioni di rotta.

7.      Riapplicano strategie e tattiche che hanno avuto successo in passato. Ma il mondo cambia in continuazione. Non è detto che la replica sia fruttuosa. Il contesto di riferimento è vitale. Pensiamo alla Coca Cola. Con il movimento guidato dall’ex sindaco di New York Mike Bloomberg contro le bibite gasate, non è più possibile vendere bibite zuccherate come un tempo. E’ necessario rivedere tutta la campagna pubblicitaria, aderendo alle tendenze salutiste imperanti.

Filkenstein osserva con amarezza: “Ancor più clamoroso, ciascuna di queste abitudini rappresenta una qualità che è largamente ammirata nel mondo degli affari odierno: in quanto società non solo tolleriamo le qualità che rendono i leader clamorosamente fallimentari, le incoraggiamo”.

Se non si ricorda - come fa Vitale - che il management è una disciplina antica, si compie un’involuzione verso un tecnicismo esasperato e poverissimo di contenuti. Si ha paura di schierarsi, di increspare troppo le acque. Nelle parole vivide di un alto dirigente di una grande banca italiana, si rischia la “mckinseyzzazione” dell’economia imprenditoriale.

Non mitizziamo l’homo oeconomicus. Le imprese sono come le famiglie, si può litigare, non intendersi più. Vitale invita a uscire da una visione astratta e ingenua dell’impresa come luogo di perfetta razionalità: “Le imprese sono organizzazioni sociali con tutte le debolezze, le incertezze, gli egoismi e le infamità delle società umane, dove degli uomini normali, nel bene e nel male, cercano, spesso non riuscendovi, di trovare un punto di equilibrio tra gli obiettivi sociali e la, spesso sfrenata, avidità di chi li guida”. Se faremo così, i fallimenti aziendali ci appariranno meno sorprendenti.

venerdì 5 maggio 2017

Cronaca di una giornata (bellissima) a Bologna con Marino Golinelli, formidabile imprenditore e filantropo

Da qualche tempo i media privilegiano le cattive notizie a scapito di quelle buone; fanno più audience, dicono. Il guaio è che, così facendo,  trasmettono messaggi negativi che influenzano i nostri giudizi. 
Per esempio, l’Italia è oggi percepita come lo scempio urbanistico nella Valle dei Templi di Agrigento, il disastro ambientale ed umano nella Terra dei Fuochi ed a  Scampia del napoletano, le buche, il caos, il degrado urbano intorno al Colosseo a Roma, la criminalità organizzata infiltrata in profondità nell’hinterland milanese.
Tutto vero, non c’è dubbio. Ma è solo questo l’Italia? No, assolutamente.

Per esempio, c’è Bologna.
Meno di quattrocentomila abitanti, un milione nell’area metropolitana, era attiva già nel nono secolo avanti Cristo.

Bologna
Nel 1088 gli studenti, organizzati in libere e laiche associazioni, diedero vita alla prima Università del mondo occidentale, lo “Studium”. I docenti se li sceglievano loro , raccogliendo i soldi - “collectio” - per pagarli. E i capi delle organizzazioni studentesche si chiamavano “rectores”. La prima specializzazione fu il diritto.
A metà del quattordicesimo secolo la competizione per l’ingaggio dei docenti era così vivace che venne coniato il detto “nullus bonus jurista nisi sit bartolista”, per sostenere la scelta di Bartolo di Sassoferrato, grandissimo esperto di diritto ed autore di innumerevoli testi giunti fino a noi.

Bologna era già allora culla di civiltà e di progresso. Nel 1257 il podestà  abolì la schiavitù (primo luogo conosciuto al mondo). Oggi Bologna è una città in cui  non solo si lavora, ma anche ci si diverte, con una imprenditoria diffusa ed una caratteristica particolare: proliferano le famiglie che tramandano nel tempo le loro iniziative, riuscendo a mantenere un equilibrio fra vecchie e nuove generazioni e conseguendo grandi successi nella sempre più difficile competizione nazionale e globale.
Maccaferri, Seragnoli, Vacchi (in ordine rigorosamente alfabetico) sono nomi ormai noti in tutto il paese. Ma la perla, secondo me, è Golinelli. 

Marino Golinelli
Nato vicino a Modena nel 1920 - come Carlo Azeglio Ciampi -, Marino Golinelli si è laureato in farmacia all'Università di Bologna a 23 anni. Nel gennaio 1948, neanche trentenne, rileva un piccolo laboratorio (che chiama “Biochimici Alfa”) con un solo dipendente e cominciava a produrre uno sciroppo.
Nel tempo la Alfa ha assorbito la Wassermann, la Schiapparelli, la Sigma Tau.
Tra i suoi farmaci più importanti il Vessel contro le trombosi e il Normix, celebre antibiotico.

Oggi il gruppo Alfa Sigma è presente in 18 paesi e impiega 2.800 dipendenti, di cui 1800 in Italia, dove conta 5 sedi operative. Il fatturato è superiore al miliardo di euro.
“Non ho la barca, né l’aereo privato” dice Marino Golinelli, che sottolinea vis a vis quanto sia stato importante per lui un volume di Niels Bohr - matematico, fisico, filosofo della scienza- letto a 17 anni. Così come l'incontro con Rita Levi Montalcini nel 1980. La scienza prima di tutto.
Golinelli, cavaliere del lavoro, è fissato con i perchè. Anche ai bambini delle scuole elementari che frequentano l'Opificio, chiede cosa gli è piaciuto. Mi racconta con il sorriso negli occhi: "Una volta un bimbo di sei anni mi ha detto di essere stato affascinato dai neuroni. Che soddisfazione".

A me è tornato in mente, visto che a Bologna c'è la sede della Zanichelli, di una vivace discussione tra Federigo Enriques (padre di Giovanni Enriques, che rivitalizzò la Zanichelli) e Benedetto Croce. Quest'ultimo accusò Enriques (insigne matematico) di invadenza di campo e incompetenza. Giovanni Enriques spiega bene cosa sottaceva: "Fu un episodio di incontro-scontro di due culture: tra un sistema filosofico che tenda a dare una posizione predominate alla scienza e un altro che assegna a questa un ruolo subordinato quasi assimilando la scienza stessa alla tecnica". Golinelli avrebbe parteggiato con forza per Enriques.

Se a cena un commensale cita Dante e Leopardi, è una persona colta, se cita i capital ratios stabiliti dal Comitato di Basilea presso la Banca dei Regolamenti Internazionali è un tecnico. Crediamo proprio che il ritardo che l'Italia abbia accumulato negli ultimi 30 anni sia in gran parte dovuto alla mancanza strutturale di cultura scientifica. Sforniamo giuristi e all'Università di Pavia i laureati in matematica si contano sulle dita di una mano. Francesco Giavazzi ha scritto: "All'università di Bari, su 9 mila iscritti, solo in 50 hanno scelto matematica, 62 chimica e 2 mila giurisprudenza. Al Politecnico di Milano i più si iscrivono al corso di ingegneria gestionale, vogliono tutti diventare manager: progettare il disco di un freno, anche se per le Ferrari, è considerata un'attività passé" .

Avendo un desiderio di futuro superiore a chiunque altro, Golinelli nel 1988 ha dato vita alla fondazione che porta il suo nome “affinchè i bambini e i giovani possano crescere con un bagaglio culturale adatto a farne i futuri cittadini del domani, attraverso attività di laboratorio e di divulgazione della cultura scientifica”. La Fondazione Golinelli è l'unico esempio di fondazione privata ispirato al modello delle grandi fondazioni filantropiche americane: concretezza, pragmatismo, visione e capacità progettuale la rendono un caso di best practice a livello internazionale.

Socio dell'Associazione per il Progresso Economico (APE) da molti decenni, Marino Golinelli ci ha invitati a visitare la sede che ha realizzato investendo 12 milioni di euro in un grande progetto di riqualificazione urbana.

Opificio Golinelli
Pippo Amoroso - past president dell'APE - ed il sottoscritto siamo quindi andati all'Opificio Golinelli, "cittadella della conoscenza e la cultura di Bologna" - che non a caso richiama la capacità di fare, di lavorare -, ricavato una ex area industriale ristrutturata mantenendone le linee architettoniche originali.
Nei circa 9.000 mq, che accolgono 150.000 persone all’anno, si tengono sei diverse attività:

-           La “Scuola delle idee “, spazio ludico per bambini dai 18 mesi ai 13 anni, per stimolarne la creatività con un approccio interdisciplinare.
-           Le “Scienze in pratica”, laboratorio per i ragazzi fra i 14 ed i 19 anni inteso a promuovere la passione per la scienza e la tecnologia, con possibilità di sperimentare. Io e Pippo abbiamo visto con gioia circa 30 ragazzi, seguiti dagli insegnanti, analizzare i solfiti.

-           Il “Giardino delle Imprese”, scuola informale di educazione alla cultura imprenditoriale per giovani fra i 13 ed i 25 anni, dotata di acceleratori.
-           La “Scienza in piazza”, che organizza manifestazioni nelle strade e negli spazi urbani per la diffusione della cultura scientifica.

-           “Educare a educare”, programma pluriennale nazionale di formazione degli insegnanti di tutte le scuole. Ah, quanto è importante la pedagogia, come si insegna! Già che si siamo, esclamo io al direttore generale, bisognerebbe insegnare Educazione finanziaria. Vaste programme.
-           “Arte, scienza e conoscenza”, mostre, convegni e dibattiti sulle connessioni fra arti e scienze.

Naturalmente, Marino Golinelli non fa tutto questo da solo. La moglie Paola gli è sempre accanto, con la sua originale acconciatura dai colori vivaci, eppure gradevoli, la sua positività, la sua gioia di vivere. Andrea Zanotti presiede la Fondazione, Filippo Cavazzuti ne è vice presidente, Antonio Danieli direttore generale.

Con una sessantina di persone entusiaste e motivate che ci lavorano ogni giorno Golinelli ha messo in piedi “un’impresa sociale il cui prodotto, il cui dividendo e il cui profitto finale sono l’educazione, la formazione la cultura e la crescita della società”.
Golinelli ha messo ulteriori risorse a disposizione della Fondazione per il progetto Opus 2065, con il quale intende rafforzare la missione etica della Fondazione, puntando alla formazione di giovani e insegnanti, a un centro di ricerca sui campi futuribili del sapere (compresi i Big Data), e a un fondo per il supporto di nuove attività imprenditoriali. È attivo un bando per il prossimo dottorato in data science and computational, che si terrà l'anno prossimo presso l'Opificio, in collaborazione con l'Università di Bologna e il Politecnico di Milano.
Marino Golinelli
Grande collezionista di arte contemporanea, Golinelli dice che “quando pensiamo abbiamo un’attività cerebrale che, penso, somigli ad un arabesco straordinario: Mi piacerebbe vederlo disegnato. Chissà”
In realtà ha fatto di più: quell’arabesco straordinario lui lo ha realizzato e lo dona tutti i giorni ai ragazzi, al nostro futuro, all’Italia bella.

P.S.: questo articolo è a quattro mani, l'ho scritto insieme a Pippo Amoroso, avvocato gentiluomo, con cui ho condiviso una giornata difficile da dimenticare.