martedì 13 giugno 2017

Se inflazione non arriva, Draghi e la BCE proseguiranno nelle politiche monetarie super accomodanti

Si fa un gran parlare di Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea (BCE), come se decidesse da solo. Non è così. Il Governing Council che si riunisce a Francoforte ogni 15 giorni – l’ultima consiglio giovedì scorso 8 giugno - decide a maggioranza con la partecipazione di tutti i governatori delle singole banche centrali nazionali, i cui Paesi hanno aderito all’Euro. Si tratta ormai di 19 Paesi (l’ultimo è la Lituania che ha aderito il 1° gennaio 2015) su 28 Paesi (il Regno Unito non è ancora uscito in modo definitivo) che fanno parte dell’Unione Europea.

Per superare la crisi economica, in Europa si sono seguite – con colpevole ritardo – le politiche monetarie accomodanti degli Stati Uniti e del Giappone. Le politiche di acquisto di titoli di Stato e corporate da parte della BCE – le cosiddette politiche non convenzionali – sono arrivate tardi. Da qui la differente risposta degli Stati Uniti e dell’Europa alla decelerazione economica seguita al crash di Lehman Brothers del settembre 2008.
I bilanci delle banche centrali si sono allargati a dismisura per consentire il corretto funzionamento del meccanismo di trasmissione di politica monetaria. I tassi a lunga – quelli a cui guardano gli imprenditori per le decisioni di investimento - sono scesi ai minimi storici. In Europa i tassi a breve (determinati dalle banche centrali, e non dal mercato) rimangono negativi. Tutti coloro i quali hanno mutui a tasso variabile (indicizzati all’Euribor) hanno di che festeggiare, visto che ogni mese la rata del mutuo scende per la parte relativa agli oneri sul debito residuo.

Se negli Stati Uniti la Federal Reserve ha iniziato a rialzare gradualmente i tassi di interesse – il prossimo rialzo di 0,25% è previsto per il 14 giugno – la BCE nicchia e aspetta. In un recente intervento Mario Draghi ha ribadito che, prima di procedere a dichiarare la fine delle politiche di Quantitative Easing (QE, ossia di acquisto di titoli sul mercato secondario da parte della BCE), è necessario che la ripresa ciclica si rafforzi e non sia a macchia di leopardo. Mentre i tedeschi invocano il tapering – ossia la riduzione degli acquisti, da taper che significa ridurre, sopire, scemare – i Paesi mediterranei invocano la continuazione delle politiche accomodanti.
Alla conferenza stampa dell’8 giugno Draghi ha evidenziato come le attese di una rialzo dell’inflazione sono ancora miti (i salari non salgono!). L’inflazione non c’è, ed è sotto l’obiettivo della BCE pari all’1,9%. Draghi ha quindi invitato i “falchi” (coloro che spingono per la fine delle politiche ultraespansive) a pazientare, sottolineando che gli indicatori economici non indicano ancora una ripresa nella UE corale, ampia e irreversibile.

Ogni mese la BCE acquista 60 miliardi di titoli, ridotti rispetto alla prima fase che ne prevedeva 80 al mese. Le attese sono forti per una riduzione degli acquisti negli ultimi tre mesi del 2017 per poi portare gli acquisti a zero entro la fine del 2018.
I giornali italiani soffiano sul fuoco e sono ripartiti a parlare insistentemente dello spread BTP-BUND, ossia della differenza di rendimento tra il titolo a 10 anni italiano e quello tedesco. Lo spread è sempre stato sfavorevole, nel senso che gli investitori hanno sempre chiesto un premio al rischio per detenere attività emesse dal Tesoro italiano. Non tutti ricordano che nel dicembre 1998 – quando il Ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi – lo spread BTP divenne per un giorno negativo. Ah, quanto ci manca la saggezza di Ciampi, che viaggiava sempre con lo spread aggiornato nel taschino della giacca! La credibilità conta. Eccome. Più siamo credibili come Paese, meno paghiamo il costo del debito.

E’ sommamente inutile prendersela con gli investitori internazionali, definiti la “maleficaspeculazione”. Gli investitori fanno il loro mestiere. Prezzano il rischio. Fino a che la spesa corrente crescerà senza fine – a dispetto dei dimissionari commissari alla spending review – noi saremmo costretti a emettere debito. Ogni anno il Tesoro organizza aste per oltre 300 miliardi di euro. Cari sovranisti, con che faccia ci lamentiamo dello spread se dobbiamo sempre fare affidamento sui creditori? Solo quando avremo la forza di invertire il trend e conseguire un forte surplus primario, potremo vedere scendere il rapporto debito/pil.
Nelle ultime Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco si legge: “Con un tasso di crescita annuo intorno all’1%, l’inflazione al 2, un saldo primario (ossia al netto degli interessi) in avanzo del 4% del PIL, consentirebbe di ridurre il rapporto tra debito e PIL al di sotto del 100% in circa 10 anni”. Visto che l’avanzo primario è nell’intorno dell’1%, servono 3 punti di PIL, circa 50 miliardi. Gradualmente, ma in modo incisivo, visto che “restano ampi spazi di razionalizzazione nell’allocazione delle risorse pubbliche”.
Notizie rassicuranti vengono intanto dagli Stati Uniti, dove i gestori di capitali sui mercati obbligazionari non credono alla ripresa trumpiana. Infatti l’indicatore principe – il rendimento del Treasury bond decennale – segna il minimo dell’anno nell’intorno del 2,14% (contro il 2,60% di gennaio). Significa che ci sono delle forze strutturali – demografia in primis, oltre alla intollerabile concentrazione del reddito e della ricchezza che porta i billionaire a risparmiare, invece che consumare – che pressano i rendimenti al ribasso. E’ probabile che anche in Europa assisteremo per anni a tassi di interesse sotto la media storica per un lungo periodo di tempo. Per cui anche l’Italia, indebitato cronico, ne beneficierà. Ne approfitteremo o ancora una volta butteremo al vento il risparmio di interessi sul debito in regalie, bonus cultura e amenità varie?

Pubblicato anche su "La voce metropolitana", www.lavocemetropolitana.it 

Nessun commento:

Posta un commento